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Le incognite dell’intervento militare

di Gianluca Pastori

siriaI venti di guerra che con sempre maggiore forza sembrano soffiare sulla Siria hanno contribuito a offuscare ulteriormente la realtà di una crisi che si trascina da oltre due anni nell’apparente impotenza degli attori coinvolti a porvi fine. Iniziata in sordina, all’ombra delle ‘primavere arabe’ e mentre l’attenzione degli osservatori era puntata sugli eventi in corso in Libia, essa si è progressivamente incancrenita, traducendosi in uno scenario in cui l’inefficacia dell’azione internazionale appare seconda solo alla volontà delle parti coinvolte a non accettare soluzioni di compromesso. In termini negoziali, il confronto fra il regime di Bashar al-Asad e le forze dell’opposizione ha assunto fin dall’inizio i tratti del ‘dialogo fra sordi’. Parallelamente, lo scarso interesse dimostrato da Stati Uniti ed Europa (almeno nelle fasi iniziali della crisi) ha contribuito a deteriorare una situazione in cui le già complesse dinamiche regionali si intersecano con il processo di ridefinizione degli equilibri globali innescato dal ‘riposizionamento strategico’ promosso dall’amministrazione Obama. La situazione attuale, in cui quella dell’intervento militare appare l’unica via di uscita da una posizione di sostanziale stallo, è frutto, in larga misura, di tale stato di cose. Le scelte sinora compiute (o meglio: le mancate scelte), con il loro carico di ambiguità e di incoerenze, hanno avuto, infatti, fra le loro conseguenze, quelle di ridurre in modo sensibile le alternative a disposizione dei diversi soggetti coinvolti (in molti casi già vincolati alle fluttuazioni degli umori delle rispettive opinioni pubbliche nazionali), di alimentare la costruzione di una visione fortemente dicotomica della realtà e di favorire, contestualmente, l’emergere di una percezione profondamente ideologizzata della posizione delle parti in conflitto e delle possibili soluzioni al conflitto stesso.

john_kerryIn questa prospettiva, l’opzione militare è percepita (e presentata) da varie parti come la più ‘razionale’, la più vantaggiosa e la più coerente oltre che, negli ultimi tempi, la più moralmente legittimata. Per le forze dell’opposizione siriana e per quanti le sostengono dentro e fuori la regione del ‘grande Mediterraneo’, essa rappresenta il punto d’arrivo di un processo che – dopo l’incontro di Roma con il Segretario di Stato Kerry del gennaio 2013 – ha visto i Paesi occidentali sempre più apertamente impegnati al suo fianco. Per l’amministrazione statunitense (primo fra tutti per il Presidente Obama), essa costituisce la via d’uscita da un’impasse fattosi, nel corso dei mesi, sempre più imbarazzante. Per le cancellerie europee (almeno quelle schierate in favore dell’intervento, prime fra tutte quelle di Francia e Gran Bretagna), l’implicita (ri)affermazione di ‘fedeltà atlantica’ che l’adesione a questa opzione comporta, consente di fare passare in secondo piano molte delle divergenze che sono esistite (e che continuano ad esistere) sia fra le loro posizioni, sia fra queste e quelle (non sempre coerenti né lineari) di Washington. L’ipotesi di un intervento limitato nel tempo e nei contenuti, condotto con strumenti ‘chirurgici’ e con l’‘asetticità’ implicita nella decisione di non schierare assetti di terra – al di là della sua reale validità militare e politica – consente, agli occhi di molti, di esorcizzare i fantasmi dell’Iraq e dell’Afghanistan, diluendo i rischi e le incertezze intrinseche a un’operazione su larga scala basata sullo schieramento di personale sul campo. Al contempo, questa opzione consente di aggregare intorno alle posizioni interventiste un consenso politico e sociale sufficientemente ampio e diffuso sia all’interno degli Stati Uniti, sia al di fuori di questi, anche se tale consenso si lega in primo luogo all’ambiguità intrinseca al concetto stesso di ‘limitazione’ di un’operazione militare.

obama_putinI dubbi maggiori riguardano, tuttavia, le implicazioni a lungo termine di una strategia interventista. L’impatto concreto di un’azione militare a guida statunitense in Siria – indipendentemente dalla presenza della legittimazione del Consiglio di Sicurezza ONU e per quanto condotta su scala ridotta – è ancora tutto da definire, sia rispetto alla sua capacità di influire sugli equilibri in campo, sia rispetto agli effetti che un eventuale alterazione di questi stessi equilibri avrebbe nel Paese e nelle aree circostanti. Israele è stato solo uno (sebbene, forse, il più significativo) fra gli attori che hanno espresso le proprie riserve riguardo a un’iniziativa i cui esiti appaiono, nella migliore delle ipotesi, dubbi. Lungi dal tradursi nella fine dalle violenze, la caduta del regime di Bashar al-Asad rischia, infatti, di sostituire uno scenario complesso ma chiaro nelle sue linee di fondo con una guerra di tutti contro tutti, una recrudescenza delle faide fra le diverse componenti dell’opposizione e, by proxy, in un deterioramento dei rapporti fra i vari attori che le sostengono. Nonostante le pressioni a favore dell’intervento e i consensi bipartisan che esso ha raccolto negli ultimi giorni, un’azione militare (sopratutto se unilaterale) avrebbe, inoltre, pesanti ricadute sugli equilibri politici statunitensi. Esso significherebbe – per il Presidente del ‘change’ – l’abbandono della linea seguita sinora e l’accettazione di una prospettiva che accomuna – in una paradossale ‘convergenza agli estremi’ – le correnti dell’‘interventismo umanitario’ di matrice democratica a quelle neoconservatrici della ‘nuova destra’ repubblicana. In una prospettiva a medio termine, le implicazioni di questo spostamento di enfasi appaiono non meno importanti di quelle che potrebbe avere un intervento sul campo. Il riposizionamento di Obama lungo l’asse pragmatismo/dogmatismo rappresenterebbe, infatti, una sorta di apertura anticipata della campagna per le elezioni di mid-term del prossimo anno, se non di quella per le elezioni presidenziali del 2016.

assadI costi di questo riposizionamento sono, comunque, elevati. Dopo la crisi del ‘restart’ e il deterioramento dei rapporti con la Russia (che sulla questione siriana si è espresso in forme assai chiare), la nuova postura di Washington rischia di comportare l’abbandono della politica mediorientale fin qui seguita dall’amministrazione Obama (specialmente delle aperture di credito avanzate nei riguardi dell’Iran) e, insieme con questa, della possibilità, per gli Stati Uniti, di proporsi come interlocutore credibile nel processo di pace arabo-israeliano, le cui speranze di soluzione passano sempre più chiaramente per Teheran. Tutto ciò in un momento in cui l’insediamento del nuovo Presidente della Repubblica Islamica, Hassan Rouhani, sembra aprire spiragli al dialogo innescato dalle iniziative della Casa Bianca in materia di sanzioni. Nel quadro dei rapporti con l’Europa e in quello (ad esso legato) delle dinamiche interne all’Alleanza occidentale, inoltre, la scelta dell’opzione militare appare profondamente divisiva. A differenza che nel 2011, quando, in occasione dell’intervento in Libia, l’azione di Washington si è dimostrata un elemento sostanzialmente aggregante rispetto agli ‘sfilacciamenti’ del fronte europeo, l’iniziativa statunitense in Siria sembra, infatti, privare l’Alleanza dell’unico soggetto capace di fungere da fattore di unione e da elemento di compensazione delle diverse ambizioni e prospettive nazionali. Oggi, al contrario, le divergenze e i ‘distinguo’ che – dietro la riaffermata solidarietà atlantica – caratterizzano la posizione dei partner del Vecchio continente, lasciano intravedere, nell’ipotesi di un effettivo passaggio dalle parole ai fatti, il riemergere delle linee di fratture comparse in passato e il riaffacciarsi – nella prassi se non nella forma – della ‘doppia velocità’ che ormai chiaramente guida l’azione dell’Alleanza sul piano politico come su quello militare.

ashtonGrande assente rimane, infine, l’Unione Europea. Sin dall’inizio della crisi, l’Unione ha mantenuto un profilo estremamente basso, in parte giustificato dell’attivismo di alcuni suoi membri, dal sostegno politico da questi offerto alle forze dell’opposizione, e dalla posizione da loro assunta rispetto alla questione di un eventuale intervento armato. Con il trascorrere dei mesi e il deteriorarsi della situazione, tuttavia, la difesa di questa scelta si è fatta via via più difficile. Anche in questa da occasione, l’Unione ha finito, quindi, con il dimostrare i limiti della sua azione internazionale e la sua incapacità di ‘parlare con un sola voce’ anche in ambiti che (se non altro per prossimità geografica ai confini dell’Unione stessa) dovrebbero essere di suo interesse prioritario. L’incertezza europea, inoltre, alimenta ulteriormente i dubbi che circondano gli scenari futuri. In seno all’UE si ripete (sebbene in scala ridotta) la frattura che attraversa il fronte atlantico, aggravata dalla mancanza (in questo caso strutturale) di un soggetto in grado di svolgere un ruolo aggregante. Come alla vigilia dell’intervento in Iraq del 2003, le divisioni dell’Europa sulla issue siriana finiscono per rispecchiare, soprattutto, le ambiguità del rapporto che lega gli Stati Uniti ai loro partner d’Oltreatlantico. La questione prescinde da quella delle armi chimiche e dai dubbi che circondano chi ne avrebbe fatto uso. Piuttosto, essa si lega, da un lato, alla difficoltà di Washington ad adattare il proprio profilo ai tratti del nuovo sistema internazionale, dall’altro alla tensioni che ciò inevitabilmente produce. Le incognite di un eventuale intervento militare in Siria vanno, quindi, al di là delle sue ricadute immediate e, per molti aspetti, anche al di là di quelle sul medio/lungo periodo, toccando, una volta di più, il tema delicato delle gerarchie di potenza e del problematico superamento delle ‘eleganti simmetrie’ della guerra fredda.

Gianluca Pastori è professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

 

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