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Come cambia al Qaeda

Intervista ad Arturo Varvelli, ricercatore dell’ISPI (Istituto di Politica Internazionale)
di Mirko Spadoni

al_zawahiriLa voce registrata nel messaggio audio è quella di Ayman al Zawahiri. L’invito, lanciato nel giorno del dodicesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, è quello di sempre: attaccare gli Stati Uniti. “Abbiamo già vinto la guerra in Somalia, in Yemen, in Iraq ed in Afghanistan. Dobbiamo dunque continuare questa guerra sul loro territorio”, ribadiva quello che ormai – a seguito della morte di Osama bin Laden – può essere considerato il leader di al Qaeda. Per vincere la “guerra” contro Washington occorre colpire il suo “punto debole”: l’economia. “Essa – spiegava ai jihadisti e agli aspiranti tali al Zawahiri – è traballante a causa di tutte le spese militari impegnate per la sicurezza”.
Insomma, al Qaeda non sembra intenzionata a dichiarare la resa nella sua guerra contro l’Occidente. La morte del suo leader, ucciso il 2 maggio del 2011 dalle forze speciali statunitensi in un complesso residenziale nella cittadina pakistana di Abbottabad, non le ha inferto il colpo mortale, anzi. E il perché è presto detto: al Qaeda ha dimostrato fin dalla sua nascita una grande capacità di adattamento. Per capire qualcosa di più sulla sua evoluzione, T-Mag ha contattato Arturo Varvelli, ricercatore dell’ISPI (Istituto di Politica Internazionale), che spiega: “Al Qaeda è sicuramente un’organizzazione che è cambiata molto in questi ultimi anni. Ma per comprendere meglio quello di cui stiamo parlando, dobbiamo partire dal 1988, anno in cui fu creata per volere di Osama Bin Laden. Nata con lo scopo di combattere l’invasione sovietica in Afghanistan, al Qaeda diventa con il tempo un’organizzazione più completa e il cui risultato più importante è sicuramente l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre del 2001”.
Dall’altra parte, l’attentato di New York scatenò però la reazione degli Stati Uniti. A pochi giorni dal dramma del World Trade Center, Washington invase l’Afghanistan, dove il regime dei talebani offriva riparo e protezione all’organizzazione. Da quel momento in poi, al Qaeda ha subito continui mutamenti. Vittima della controffensiva occidentale, prima. Orfana del suo leader, poi. L’organizzazione, il cui nome nei giorni seguenti all’11 settembre metteva paura a chiunque, si adattò alle circostanze: “In questi anni, si è parlato di al Qaeda 2.0 e al Qaeda 3.0. Tutte definizioni che simboleggiano l’evoluzione dell’organizzazione, che ora – più che un’organizzazione – è diventata una specie di etichetta e una sorta di missione. Mi spiego meglio: siamo soliti identificare al Qaeda con la jihad globale e internazionale. Quindi tutti quei gruppi, che hanno come ultimo scopo la jihad, si appropriano del nome di al Qaeda. Oppure – come spesso succede – siamo noi occidentali a dargli l’etichetta di al Qaeda”.
Perché 2.0 o 3.0? “Il primo passaggio nell’evoluzione di al Qaeda è stato – spiega Varvelli – quello di uscire dall’Afghanistan e dal Pakistan per emigrare in Iraq. Non dobbiamo infatti dimenticare una cosa: il primo risultato della guerra contro Saddam Hussein è stata l’esportazione di al Qaeda a Bagdad e dintorni. C’è stato poi un nuovo fenomeno: al Qaeda si è diffusa rapidamente nei territori mediorientali ed africani. Ricordiamo AQIM (al Qaeda nel Maghreb islamico), al Qaeda nella penisola arabica. Al Shabaab in Somalia, al Qaeda nella penisola nel Sinai. Adesso abbiamo diverse branchie di al Qaeda in Siria”.
Ad essere cambiata non è solo l’organizzazione, anche la missione finale è diversa. Varvelli ne è convinto: “L’obiettivo della jihad globale è stato affiancato – anche se tutto questo non rappresenta assolutamente una novità – dai diversi obiettivi degli jihadismi locali. I gruppi poi prestano un’attenzione particolare all’assistenzialismo (soprattutto nelle ramificazioni tunisine e libiche dell’organizzazione) e con un attenzione notevole al controllo del territorio”. “Il primo, vero distaccamento dalla missione iniziale – prosegue Varvelli – l’abbiamo visto con AQIM. Per la prima volta, al Qaeda ha portato avanti dei tentativi di accordo con le comunità locali e con trafficanti di ogni tipo, di droga e di esseri umani”.
Resta però da capire ancora una cosa: la creatura di Osama bin Laden riesce ancora a catalizzare del consenso tra le popolazioni arabe? “In Iraq – spiega Varvelli – al Qaeda si è mangiata l’appoggio della popolazione dal momento in cui ha incominciato a colpirla direttamente. Dobbiamo ricordare gli attentati compiuti nei mercati o contro le file di persone in cerca di occupazione. Questo – di fatto – ha eroso il consenso attorno ad al Qaeda”.
I fallimenti iracheni sono serviti da lezione e Varvelli ci spiega il perché: “A partire dal 2010-2011, nel corso delle primavere arabe, l’organizzazione ha mutato nuovamente il suo obiettivo principale, che è diventato quello di integrarsi tra le popolazione locali. Una pratica, quest’ultima, tipica di al Qaeda nei suoi primi anni di vita, quando si muoveva tra il Pakistan e l’Afghanistan, e che gli aveva permesso di avere un certo successo. Ad esempio AQIM, che ora ha la capacità di controllare qualsiasi frangia che si definisce jihadista, salafita ha cercato, e ci è riuscita, ad integrarsi con la popolazione locale, con i Tuareg”.
Non è semplice descrivere l’attuale struttura di al Qaeda, ma una cosa sembra essere piuttosto evidente: “Il centro – la leadership, tanto per intenderci – è capace di dettare ancora una linea. Però – sottolinea il ricercatore dell’ISPI – non ha un vero controllo sui finanziamenti, non ha un vero controllo delle strategie in ogni Paese e delle dinamiche interne alle diverse strutture che compongono la periferia. Rimane una sorta di leadership carismatica. Il core resta indiscutibilmente tra l’Afghanistan e il Pakistan, ma – sottolinea nuovamente Varvelli – le periferie non sono assolutamente controllabili. C’è, in sostanza, una sorta di doppia freccia: la periferia influenza il centro, che ha a sua volta indirizza in parte la periferia stessa”.
Dal 2010, il mondo mediorientale è stato scosso dalle primavere arabe ed al Qaeda non è restata a guardare. In Siria – ad esempio – uno studio condotto dall’istituto britannico di difesa IHS Janes e pubblicato lunedì dal Daily Telegraph, sostiene che degli oltre 100.000 ribelli impegnati nella lotta contro il regime di Damasco, 10.000 uomini sono jihadisti combattenti di gruppi legati ad al Qaeda, mentre altri 30-35.000 sono islamici membri di gruppi estremisti.
Insomma, al Qaeda ha deciso di inserirsi nelle rivolte, per influenzarle e determinarle. “All’inizio – sostiene Varvelli – la primavera araba è sembrata una débâcle per al Qaeda. Lo è sembrato perché davano voce a persone che vivevano in regimi non democratici o democratici in parte. Tutto questo aveva eroso l’influenza di al Qaeda: le frange della popolazione arruolabili nell’organizzazione vedevano venir meno le motivazioni per entrare a far parte dei gruppi terroristici”. “E così è stato fino a quando le primavere arabe avevano avuto degli effetti – diciamo così – positivi. Tutto è cambiato nel momento in cui sono subentrati motivi di incertezza, nel momento in cui sono scoppiate le guerre civili. Davanti a situazioni simili, al Qaeda è stata brava a sfruttare tutte le occasioni e così – nel caos – al Qaeda è tornata ad essere al Qaeda”.

 

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