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Cambiare marcia sull’innovazione

1,3% del Pil: è quello che il nostro Paese investe in ricerca. Meno anche della Slovenia. Le maggiori economie cercano di vivere la crisi come opportunità di cambiamento, noi siamo a rischio
di Carlo Buttaroni

innovazioneIn Italia la spesa per ricerca e sviluppo rappresenta l’1,3% per cento del Pil, un valore assai distante da quello dei Paesi europei più avanzati. Investiamo molto meno di Francia, Slovenia e Belgio; meno di Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda, Estonia Portogallo, Repubblica Ceca, Lussemburgo e Spagna. Per non parlare dei più virtuosi: Svezia, Danimarca, Germania e Austria investono in R&S più del doppio, la Finlandia più del triplo. Siamo lontani dai paesi-locomotiva dell’innovazione anche per quanto riguarda la quota di imprese che innovano, di addetti in ricerca e sviluppo e di intensità brevettuale. Investiamo poco per l’istruzione e la formazione e siamo in fondo alla classifica per numero di laureati in discipline tecnico-scientifiche. Stiamo accumulando un ritardo via via crescente, tagliati fuori dal potente effetto schumpeteriano di “distruzione creatrice”, che evidenzia l’importanza della nascita di nuove strutture economiche sulle ceneri di quelle antiche.
E’ ciò che sta accadendo. Le maggiori economie cercano di far vivere ai loro Paesi la crisi come un’opportunità, dando una forte spinta al cambiamento e preparandosi a cogliere le nuove ondate scientifiche e tecnologiche, mentre in Italia i numeri dimostrano che si sta procedendo in senso opposto. Nel 2011, gli investimenti sono crollati dell’1,6% a causa dei tagli nel settore pubblico, nelle Università e nelle imprese. Col risultato che, rispetto alla media europea e agli obiettivi di Lisbona (3% del PIL destinato alla ricerca con i due terzi della spesa derivante dagli investimenti del settore privato), in Italia il settore pubblico investe poco e quello privato contribuisce ancor meno.
In parte questo dipende dalla particolare struttura economica dell’Italia, costituita da una ragnatela di micro, piccole e medie imprese che spesso associano il concetto di ricerca a quello di alto rischio e di non rientro dell’investimento. Una gran parte delle imprese italiane, operano su mercati limitati a un perimetro regionale, più spesso comunale, e anche per questo sono poco propense a fare investimenti competitivi. C’è poi la scarsa propensione del sistema del credito a finanziare progetti d’innovazione o volti all’apertura di nuovi mercati. Per quanto riguarda le grandi imprese, la crisi finanziaria e le nuove logiche di mercato – fondate sul breve termine e sulla liquidità immediata – hanno portato a una riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo. Un calo che, a cascata, ha portato a una netta diminuzione del personale impegnato, alimentando così la migrazione dei cervelli.
In Italia non solo s’investe poco, ma manca anche una strategia di sistema. Perché se la ricerca ha, innanzitutto, l’obiettivo di costruire un patrimonio crescente di conoscenze da trasferire al sistema in modo da renderlo competitivo, questo non può avvenire senza un tessuto linfatico in grado di armonizzare e rendere efficiente il rapporto tra investimenti ed effetti delle attività stesse di ricerca. Non è automatico, infatti, che la ricerca generi innovazione e che quest’ultima, a sua volta, generi competitività. Tale risultato si può ottenere solo con una strategia complessiva, dove l’equazione del successo è data da ricerca, innovazione e competitività che crescono in equilibrio con i bisogni individuali e collettivi del Paese, dando contenuto alle azioni da svolgere e ai percorsi da intraprendere. Il trasferimento delle conoscenze non può essere ricondotto semplicemente a un modello teorico sequenziale, che vede il primo passo nella ricerca di base, cui fanno seguito l’ingegnerizzazione e, infine, le applicazioni.
Oggi si richiede un processo d’innovazione ̀ molto più articolato, che preveda un dialogo costante fra il mondo della ricerca e le imprese, in primo luogo facilitando la nascita di programmi concertati con i futuri utilizzatori della ricerca stessa. Occorre troncare alla radice il problema del trasferimento delle conoscenze, perché nel momento in cui la ricerca è fatta insieme a tutti gli attori, nasce “trasferita”. Vanno, quindi, risolti tutti quei difetti strutturali che caratterizzano la ricerca nel nostro Paese e ostacolano le opportunità di costruire un “sistema di ricerca e sviluppo” organicamente efficiente. Bisogna, quindi, rovesciare la logica che porta a osservarla con una messa a fuoco solo sui soggetti, orientandola, invece, sull’oggetto, con una visione politico-strategica che ha come obiettivo i mercati e lo sviluppo del Paese. Un approccio che permetterebbe di programmare l’attività per commesse strategiche, con una netta distinzione fra il ruolo di committente (la domanda del mercato) e quello di esecutore (l’offerta del mercato) e faciliterebbe le collaborazioni con terzi su scala nazionale ed europea, in un quadro programmatico definito di responsabilità specifiche e risultati attesi.
Fare sistema significa, innanzitutto, puntare sulla costruzione di una rete tra settori produttivi e competenze scientifiche, in grado di rendere l’Italia competitiva in sede internazionale e all’interno dello spazio comune europeo della ricerca.
È proprio dalle nostre eccellenze che può scaturire quella spinta propulsiva che oggi manca e che ci sta allontanando sempre più dalle economie avanzate. Il tema della ricerca è centrale, incrocia il futuro e ha bisogno, per dare i suoi frutti, di tempi più lunghi di una legislatura o della durata di un governo.
Solo i Paesi che si saranno preparati alla sfida del “dopo-crisi”, attivando sin da ora opportune politiche di rilancio della ricerca e dell’alta formazione, potranno trarre vantaggio dalle nuove opportunità che si dischiuderanno. Può essere proprio questo, per il nostro Paese, il risvolto non negativo della crisi, soprattutto se l’Italia saprà orientarsi verso un “modello di ricerca e sviluppo” in grado di dare sostanza e valore alle molte potenzialità in dotazione. Per fare questo c’è bisogno di “lenti bifocali” che permettano di guardare agli effetti immediati della crisi, senza perdere la visione prospettica sui cambiamenti nella società, nell’economia e nel sistema mondo. Occorre, cioè, un piano orientato su obiettivi strategici, che attraverso interventi specifici e con un’opportuna allocazione delle risorse, faccia recuperare all’Italia il terreno perduto, rendendolo un “sistema Paese” a prova di futuro.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 28 ottobre 2013. Sfoglia l’indagine Tecnè

 

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