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La rivoluzione annunciata dei BigData

di Fabio Ferri

bigdataSi dice che in caso di alluvione la prima cosa che viene a mancare sia l’acqua (potabile). Questo sembra essere il rischio connesso ai big data: quello cioè di confondere dati con informazioni da una parte, e di conseguenza quello di farsi sommergere dal rumore di fondo.
L’ultimo trend, o fascinazione collettiva, del momento sono i cosiddetti Big Data. Cosiddetti perché troppo spesso, soprattutto sui giornali, questa etichetta viene apposta un po’ a casaccio.
Una definizione agile e immediata potrebbe essere quella fornitaci da Vincenzo Cosenza nel suo e-book La Società dei Dati, che spiega come si possa parlare veramente di Big Data quando si è in presenza di tre fattori: volume, velocità e varietà (qualcuno aggiungerebbe anche un quarto, visualizzazione o comunicabilità).
Grandi quantità, da qui l’aggettivo “big”: nell’ordine di milioni o miliardi di dati, che in un mondo sempre più piccolo grazie ai social network non sono certo un problema. Si considera che ogni giorno infatti vengano inviati circa 175 milioni di tweet e 2,5 miliardi di post su Facebook.
L’analisi dei big data dovrebbe essere così veloce da essere quasi in tempo reale, così veloce che in un famoso articolo su Wired, Chris Anderson, preconizzava la fine delle teorie scientifiche.
La teoria serve a dare una struttura alla conoscenza in mancanza di informazioni e prove, teoremi a cui, ancora, manca la dimostrazione. Un esempio su tutti può essere la teoria della relatività, dimostrata anni dopo la sua enunciazione da Einstein.
Nell’articolo Anderson spiega che con l’avvento dei dati XXL, oggi si possono confrontare, modellare e validare studi e ipotesi in tempo reale: senza necessità quindi di costruire teorie a priori. Se per quantità e velocità siamo quindi entrati nella Petabyte Era, così forse non è riguardo alla varietà, che è ancora non è in una fase così matura. Certo Facebook elabora video, link, testi, foto: ma rimangono comunque all’interno del suo ecosistema. Quello che ancora manca è il “gancio” con altri tipi di dati. Relativi ad esempio al traffico, all’inquinamento, alle cure mediche: informazioni che se correttamente gestite potrebbero portare alla realizzazione, in ambito urbano, delle smart city.
Ma non bisogna fare confusione. Per ora i big data sono qualcosa di diverso. Sono altro anche dagli Open Data: a cui spesso vengono accomunati per errore. Gli open data possono anche essere big data: ma non è detto che se sono “grandi” siano anche “aperti”.
C’è chi poi, come Tim Berners Lee, pensa alla prossima evoluzione del web, in chiave semantica, legando grandi quantità di open data tra loro, parlando appunto di Linked Data.
Con lo stoccaggio di enormi quantità di dati nel prossimo futuro, si arriverà alla costruzione di serie storiche coerenti, quelli che già oggi vengono definiti Long Data. E c’è chi, sempre su Wired, segna la morte dei big in favore dei long data. Che vedono già un’applicazione come dimostra la polizia di Los Angeles con PredPol. Sistema capace di ottimizzare la dislocazione delle forze dell’ordine sul territorio in base alla probabilità che in una determinata zona della città avvenga un crimine. Non è certo merito dei precog, ma dello studio delle statistiche storiche e di altre informazioni.
Una vera e propria alluvione di byte quindi, di cui spesso però non sappiamo cosa fare. E che per molti aspetti porta con se una serie di dilemmi e problematiche non da poco: su tutti la proprietà dei dati personali e come gestire la net privacy, argomento caldo come non mai.
Quello che forse potrebbe essere un vero e proprio cambio di paradigma però rappresenta per ora un vantaggio non secondario per quelle aziende in grado di gestire, soprattutto al loro interno, questa manna di dati. Facendo nascere nuove professionalità e opportunità di lavoro. E non a caso Hal Varian, Chief Economist in Google, qualche anno fa durante una conferenza, disse che nei prossimi dieci anni il lavoro più sexy al mondo sarebbe stato proprio fare l’analista di dati. E c’è chi lo ha preso in parola, letteralmente. Come True&Co, un’azienda di lingerie che ha creato un algoritmo, partendo dai dati delle clienti, per capire qual è la taglia migliore della biancheria da vendere. Lo slogan del progetto è chiaro: “Your fit data helped us design for you”. Così non si dirà più che il seno perfetto è quello che può stare in una coppa di champagne, ma che ognuna potrà avere il reggiseno perfetto per il proprio seno: grazie ai dati, anche se non saranno big.

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1 Commento per “La rivoluzione annunciata dei BigData”

  1. […] della privacy (ma erano di più i giudizi positivi, in relazione cioè a tutti gli aspetti – innovazione e sviluppo – derivanti da un uso responsabile dei big […]

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