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Una nuova e delicata questione fiscale

di Aly Baba Faye

pressione_fiscaleMesi fa Berlusconi disse che evadere le tasse era in qualche caso legittimo. Il segretario della Cisl Bonnani ha detto in tv che “le tasse sono la tomba dell’economia”. E poi c’è il governo che, tra Imu, Iva e cuneo fiscale, si sta barcamenando per il riassesto del sistema contestualmente con il crescere di un aumento di una forte sofferenza sociale nei confronti del fisco. In questo quadro è ritornato prepotente la figura di Arthur Laffer l’economista che negli anni ’80 era ribaltato sulla scena mondiale con la sua famosa curva e gi studi che ispirarono la politica economica americana ai tempi di Ronald Reagan, la cosiddetta Reaganomics. Ora proviamo a esaminare la natura e le cause di questa ritrovata centralità del tema fiscale nella società italiana.
In Italia la questione fiscale si esplicita in una doppia problematica sia di sostenibilità del sistema di tassazione che di lealtà fiscale dei contribuenti. Specularmente alla formula pagare meno, pagare tutti, si può desumere che in Italia la realtà è stata fin qui un pagare molto, pagare in pochi. Appunto un disposto combinato tra forte pressione e alto livello di evasione fiscale. E qui si potrebbe trovare la controprova sulla validità degli studi di Arthur Laffer da cui scaturì la sua famosa curva e che portò l’amministrazione Reagan a usare in un certo modo la leva fiscale per stimolare crescita economica. In sintesi dice che se è evidente che il gettito fiscale cresce con l’aumentare del livello di tassazione risulta però altrettanto evidente che c’è una soglia critica arrivata alla quale invece che continuare ad aumentare il gettito, la pressione fiscale favorisce la propensione all’evasione ed elusione. Resta però il fatto che nessuno e neppure Laffer stesso sa indicare qual è il punto di inversione perché semplicemente non esiste un livello ottimale di tassazione (Optimal Tax Rate). Il concetto stesso di pressione alta è una valutazione soggettiva del contribuente che non poggia su alcun criterio oggettivo di misurazione.
In ogni caso, possiamo rilevare nella realtà italiana una certa cogenza della tesi di Laffer. Infatti, è opinione diffusa che è l’alto livello di evasione è motivato da una pressione fiscale molto alta – almeno in riferimento alla media di altri Stati membri dell’Ue. Questo è un dato evidente che, sommato alla pochezza e alla scarsa qualità dei servizi, alimenta un fenomeno di sofferenza sociale al fisco. Infatti, storicamente tutti i dati riportano livelli imponenti di evasione ed elusione fiscale e la permanenza di una vasta economia sommersa. Dunque si può dire che tendenzialmente gli italiani soffrono il fisco e questo fatto ha generato una vera patologia sociale.
Oggi questa tendenza ha raggiunto livelli di diffusione tali da determinare una nuova e più delicata questione fiscale. In effetti, in tempi di crisi, quindi di bassa attività (Off Peack), il peso assoluto del fisco cresce in senso inversamente proporzionale alla mancata crescita. E’ ovvio che 45% di prelievo fiscale incide di più sull’impresa quando si riduce la produttività totale dei fattori e cala il fatturato. Poi per lavoratori e pensionati c’è l’erosione del potere d’acquisto a fronte di un’inflazione che cresce senza peraltro idonei meccanismi di adeguamento delle retribuzioni al costo reale della vita. Dunque cresce la sofferenza sociale nei confronti del fisco che, sommata alle difficoltà dei più di varcare il lunario, crea le condizioni non solo per un aumento dell’area dell’evasione e dell’elusione ma per una vera ribellione fiscale.
Infatti, molti sono coloro i quali cominciano a percepire lo Stato come “predatore” e comunque nemico del contribuente. Una percezione suffragata dalla pochezza dei servizi offerti ai cittadini e dalla riduzione dei margini di manovra dei governi locali sempre più stremati da patti di stabilità imposti dal rigorismo dell’Austerity. Lo stesso governo nazionale ha le mani legate e non gode di alcuna sovranità economica ed è persino incapace di difendersi dall’assalto delle agenzie di rating e altri forze “invisibili” del mercato. Insomma, tutti ingredienti che contribuiscono ad alimentare la rabbia dei cittadini nei confronti del lo Stato e della società politica. In questo quadro, la crisi paradigmatica e il venir meno del primato della politica, la perdita di sovranità dello Stato non contribuiscono certamente a dare risposte efficaci a fronte delle sfide sempre più grandi della globalizzazione.
Lo Stato viene sempre di più percepito come un vecchio arnese, laddove la politica si configura come un teatrino utile solo agli attori che la praticano. Il disposto combinato tra questi due fenomeni crea un solco sempre più profondo nel rapporto tra società civile e società politica. Evidente è il fatto che la disaffezione nei confronti della società politica – sommariamente bollata come “casta”- va di pari passo con una crescente diffidenza nei confronti dello Stato. E c’è il rischio di una saldatura stretta tra antipolitica e antistatalismo che raffigura una miscela esplosiva. Tutti ingredienti che favoriscono spinte regressive o reazionarie che determinano un processo di sgretolamento del principio di lealtà repubblicana nei confronti dello Stato.

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