La crisi dell’editoria: come cambia il giornalismo | T-Mag | il magazine di Tecnè

La crisi dell’editoria: come cambia il giornalismo

di Fabio Germani

giornalismoLa prima anomalia del giornalismo nostrano è che in Italia ci sono tanti giornalisti. Tanti, almeno, rispetto alle presenze dei colleghi in altri Paesi. Alla fine del 2012 risultava che una persona ogni 526 abitanti era in possesso del fatidico tesserino da giornalista, quando la media è di uno su 1.778 in Francia, di uno ogni 4.303 persone in Cina e uno su 5.333 negli Stati Uniti. Certo, i giornalisti “attivi”, ovvero quelli censiti perché vantano una posizione contributiva all’Inpgi, sono appena la metà: quasi 48 mila su 112.046 iscritti complessivi all’Ordine. Ed è vero, allo stesso tempo, che azzardare paragoni con il sistema informativo cinese o statunitense è fuorviante per motivi diametralmente opposti. Ma dal rapporto di recente pubblicazione di Lsdi, Il paese dei giornalisti, emerge un ulteriore dato. Nel 2000 il lavoro autonomo veniva svolto da poco più di un giornalista su tre, nel 2012 erano diventati sei su dieci. Sempre l’anno scorso, viene ricordato nel rapporto, si è registra- ta una contrazione del lavoro salariato pari all’1,6%, mentre in quello autonomo le posizioni attive sono aumentate del 7,1%. I giornalisti dipendenti, quelli cioè che hanno un contratto a tempo indeterminato, sono il 18,8% degli iscritti all’Ordine, meno di un giornalista su cinque. Il profilo del giornalista medio francese è senza dubbio migliore, pur con tutte le difficoltà che l’editoria mondiale – non solo italiana – sta attraversando. Si tratterebbe di un uomo sulla quarantina (l’identikit è dell’Observatoire des métiers de la presse, ripreso ancora da Lsdi), dipendente a tempo indeterminato in un quotidiano locale con uno stipendio di 3.412 euro al mese. E non ha frequentato alcuna scuola di giornalismo, altra costosa anomalia italiana da aggiungere alle storie – troppe, spiacevolmente – di giornalisti impegnati e sottopagati nell’informazione regionale o cittadina. La professione giornalistica risente inevitabilmente della crisi dell’editoria (per quanto non tutti i problemi derivino da lì). Il Rapporto annuale 2013 dell’Agcom spiega che i ricavi del settore hanno subito un calo considerevole, registrando una flessione di quasi un miliardo di euro (873 milioni), ovvero del 14,1%. Anche le edicole, di riflesso, non godono di buona salute. Dal 2005 ad oggi quelle costrette a chiudere i battenti sono state 12 mila e altre diecimila corrono il medesimo rischio da qui ai prossimi tre anni. L’unico ambito in espansione è quello digitale, che tuttavia non è riuscito a compensare totalmente le perdite. La vendita dei prodotti digitali è ancora molto contenuta: circa il 4,5% delle copie totali. Ciò avviene per molte ragioni. La prima è il digital divide che caratterizza la rete italiana e incrementa il divario di informatizzazione nelle diverse aree geografiche. La seconda è culturale: non tutti sono propensi all’utilizzo delle nuove tecnologie e non dimentichiamo che sono in diminuzione i lettori che possano definirsi “assidui”. La terza è che nonostante il vivace mercato dell’editoria online – dal Post a Giornalettismo, da Lettera43 a Linkiesta passando per Fanpage e per l’Huffington Post – un modello di business definitivo non è stato ancora individuato. Il 29 ottobre, nel presentare la nuova veste grafica de Linkiesta, il direttore Marco Alfieri scriveva: «La crescita di traffico è positiva al netto di saliscendi tipici di chi avvia una start up in un settore difficilissimo come l’editoria al tempo della rivoluzione web (siamo ormai vicini al milione di utenti unici mese). Siamo ben posizionati sui social network, il vero “cancello” da cui entra la maggior parte del traffico di un giornale online, nonché la cifra di chi fa informazione digitale. Linkiesta, anche nella capacità di viralizzazione, è appena a ridosso dei grandi giornali». Davvero i like o i followers sono un’unità di misura così prestigiosa per i giornali online? Posto che più ricerche hanno osservato come Facebook, più degli altri, generi molto traffico in entrata verso i contenuti editoriali, talvolta il sostegno esterno dei social media è una pratica sopravvalutata. Un’indagine del Pew Research Center mostra come la maggior parte degli utenti frequentatori di Facebook non utilizzino la piattaforma per cercare notizie. È facile imbattersi in articoli di giornali, questo sì, ma il più delle volte il click dipende dal suggerimento di un amico che non dalla testata stessa che lo propone. E in ogni caso chi accede alle notizie tramite Fb è generalmente una persona “informata”, che di norma guarda la tv e legge quotidiani. Riguardo la teoria secondo cui internet salverà il giornalismo, il problema consiste nell’individuazione di un modello che radicalizzi un’azione di sistema. Agli albori della blogosfera, soprattutto oltreoceano, si assistette allo sviluppo del citizen journalism. Ma quest’ultima circostanza non è mai del tutto decollata, salvo qualche rara eccezione. C’è il caso di ProPublica, associazione non profit di New York, che pubblica gli articoli sotto licenze Creative Commons e che ha vinto il premio Pulitzer nel 2010 per un’inchiesta sulle difficoltà dopo l’uragano Katrina, pubblicata successivamente anche sul New York Times.
Nel 2008, in piena campagna elettorale statunitense, capitava che i media nostrani citassero l’Huffington Post definendolo il più influente blog d’America. Ciò accadde in un’occasione in particolare. La blogger Mayhill Fowler riportò sul sito le parole di Obama, origliate durante un evento di raccolta fondi, sulla disperazione giustificata di tanti cittadini della Pennsylvania («Non è sorprendente che diventino rancorosi, che si aggrappino alle armi o alla religione o all’antipatia verso chi non è come loro o a sentimenti anti-immigrazione o a opinioni contro il libero mercato, per spiegare le loro fru- strazioni»). La notizia fece scalpore, sia per le dichiarazioni del futuro inquilino della Casa Bianca sia per la fonte che, inevitabilmente, riaccese il dibattito sul citizen journalism.
L’Huffington Post fu fondato nel 2005 dalla giornalista greca naturalizzata statunitense Arianna Huffington (insieme a Kenneth Lerer e a Jonah Peretti). In pochi anni da “blog più influente d’America” si è trasformato in un vero e proprio prodotto editoriale, con redazioni dislocate in diverse parti del Paese. Risale ad inizio 2011 l’acquisizione dell’Huffington Post per oltre 300 milioni di dollari da parte del colosso Aol e a partire dallo stesso anno il sito è approdato anche in Europa: dapprima in Gran Bretagna, poi Francia, Spagna e Italia dopo aver siglato a maggio 2012 la partnership con il Gruppo Espresso. In molti, da sempre, criticano il modo di fare informazione dell’Huffington Post. Di fatto il sito è paragonabile ad una piattaforma ospitante decine di blog i cui autori, alcuni famosi altri meno, scrivono non per soldi. I compensi spettano ai giornalisti che compongono le redazioni, tutto il resto è lavoro da considerare a titolo gratuito. Il metodo è stato in qualche modo introdotto da Arianna Huffington, ma tanti editori lo hanno emulato negli anni. In passato la stessa Arianna Huffington ha sostenuto che la visibilità di chi scrive è da considerarsi la moneta di scambio per un blogger che scrive sul suo sito. Il modello, polemiche a parte, sembra funzionare.
C’è pure chi ha creato una pubblicazione destinata ai soli dispositivi mobili. Il tentativo più famoso è The Daily del gruppo editoriale News Corp. di Rupert Murdoch. Tuttavia, l’esperimento non ha avuto successo e dopo due anni il giornale è stato costretto a chiudere i battenti. The Daily era nato con l’obiettivo di rivoluzionare il mondo dell’editoria online. l’esordio avvenne nel febbraio del 2011, in un primo momento pensato esclusivamente per iPad, ma non è stato in grado «di trovare un pubblico grande abbastanza per convincerci che il modello di business fosse sostenibile nel lungo periodo», come ammise il magnate australiano. All’epoca della decisione erano appena centomila i sottoscrittori paganti (a 99 centesimi la settimana o 39,99 dollari l’anno), mentre secondo le stime del gruppo ne servivano almeno 500 mila per raggiungere il pareggio di bilancio. I lettori mensili, invece, raggiungevano quota 250 mila. Con quei numeri sarebbero perciò serviti cinque anni per riportare i conti in ordine. Che il giornalismo stia mutando – nella forma e nella sostanza – è certificato dalle recenti manovre di alcuni colossi della web economy. In particolare Yahoo! che ha appena ingaggiato Katie Couric, celebre anchor già della Cbs e in seguito della Abc. O, ancora, emblematica è l’acquisizione del Washington Post da parte di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, per circa 250 milioni di dollari (la sede del giornale, è notizia di questi giorni, è stata intanto venduta per 159 milioni di dollari). In Italia siamo lontani anni luce e resta in piedi l’annosa questione dell’equo compenso per i giornalisti precari e autonomi, nonché l’eterna diatriba sulla durata della gavetta o, detta in altri termini, del ragionevole lasso di tempo in cui è consentito scrivere gratis per farsi le ossa. Un lungo articolo de Linkiesta, a firma Manuel Peruzzo, spiega bene le difficoltà dei giornalisti di ultima generazione. Alla fine il problema è quello di partenza: la crisi dell’editoria.

Questo articolo è stato pubblicato sul N. 7 di T-Mag del 29 Novembre 2013

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