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Prevedibile estremo

di Andrea Ferraretto

prato_pompieriLa fine del 2013 verrà ricordata, in Italia, anche per i fatti drammatici che hanno visto lo svolgersi di tragedie come l’affondamento del barcone a Lampedusa, le alluvioni in Sardegna, in Calabria e in Abruzzo, la strage di operai-schiavi cinesi nella fabbrica di Prato.
Tre condizioni che hanno mostrato la debolezza e la precarietà di un sistema economico che non è più in grado di amministrare il territorio, subendo i colpi di emergenze che tali non sono, perché sono fenomeni che, in realtà, sono conosciuti e analizzati, ma accuratamente trascurati e nascosti.
C’è una logica, perversa, che lega queste tre tragedie e, in ciascuna di esse, c’è il ruolo dello Stato che ha scelto, volutamente, di ritirarsi e di non affrontare la crisi che, di volta in volta, può essere ambientale, economica, sociale, legata allo sfruttamento del lavoro e all’espandersi dell’economia sommersa, in nero.
Ci sono i migranti che, disperati, fuggono dai paesi dove non c’è più una prospettiva di vita, stritolati dall’economia che sottrae le risorse naturali senza restituire qualcosa a quelle zone.
Ci sono i cinesi, immigrati clandestini anch’essi, ai quali è riservato un trattamento differente, perché il sistema economico che li stritola è un regime spietato, fondato sullo sfruttamento e sulla schiavitù: poco importa che ciò avvenga in Italia, sotto gli occhi di tutti.
Ci sono coloro che muoiono nel fango, dentro un’autovettura o in un semiinterrato che, comunque, è stato dichiarato agibile.
Certamente si sprecheranno colonne di giornali per dimostrare l’imprevedibilità di certi eventi, si discuterà su quanto sia stata malvagia la natura nel concentrare piogge e burrasche proprio lì dove, negli ultimi anni si è costruito, su torrenti e canali che non hanno trovato altro sfogo.
Le responsabilità saranno sempre vaghe e non riconducibili a qualcuno, si dirà che i controlli sono pochi o inesistenti perché costano e, da sempre, prevenire le tragedie è stato considerato un prezzo troppo alto, che Comuni e Regioni non possono permettersi perché le priorità sono altre.
Perché, alla fine, ciò che conta, sono sempre e soltanto i soldi: soldi necessari per ricostruire, soldi per risarcire, soldi per riprendere da dove si è interrotto il meccanismo.
Gli stessi soldi che hanno permesso che a Prato, in Toscana, si realizzasse uno dei più grandi distretti industriali che ha come pilastri l’illegalità e lo schiavismo: un distretto che rifornisce l’asfittico mercato dell’abbigliamento, offrendo prodotti a basso prezzo, spesso e volentieri in nero.
C’è un filo rosso che collega le storie di sofferenza e di dolore: l’idea che non ci sia più un’idea di futuro per l’umanità e che l’unico valore reale sia la moneta e il profitto. Perché, in fondo, l’idea di non pagare più le tasse e le imposte locali, che sia l’IMU, la TRISE o la IUC, è, drammaticamente il prezzo da sopportare per avere meno servizi e meno controlli, in un patto scellerato tra politica e cittadini che accettano di vivere con maggiori rischi ma minori controlli e imposizioni. Uno stato di fatto che archivia, in modo definitivo, l’idea di bene comune e di collettività, tornando a basarsi su uno scambio, un baratto tra diritti e favori.
Non è un caso se le calamità producono più vittime e danni proprio in quelle zone dove maggiore è stata l’incidenza dell’abusivismo, poi sanato grazie a condoni ripetuti: si è lasciato fare, per poi ricavare qualcosa grazie alle sanatorie, rinunciando al controllo e alla pianificazione. Peccato che in questo modo si sia costruito il presupposto per un maggior rischio.
Un mondo che vive il rischio dei cambiamenti climatici con lo stesso atteggiamento, un po’ fatalista, con il quale si aspettò l’avvento dell’anno Mille: si ricorre sempre più spesso a definizioni catastrofiche, annunciando cataclismi, legando sempre il concetto dell’imprevedibilità e dell’estremo come metafora di ciò che è fuori dal controllo dell’uomo.
Non è così: il cambiamento del clima, il global warming, è un fenomeno conosciuto e studiato. Da decenni si susseguono conferenze e programmi ma, tra le nazioni, esistono differenze enormi su come questi scenari sono stati affrontati e su come si sia dato corso a una transizione dell’economia e della società.
In Italia tutto ciò non lo si è fatto in casa, ponendo attenzione al dissesto idro-geologico del territorio, non lo si è fatto dal punto di vista economico e sociale: siamo, di fatto, impreparati a reagire alla crisi, impantanati in un sistema che ha rinunciato a innovare e creare competitività e, nel frattempo, abbiamo smantellato una parte consistente della pubblica amministrazione, incantati dall’idea che privatizzare e liberalizzare fosse la ricetta magica.
Eccoci qui, alle soglie del 2014, immersi in una crisi che non trova sbocco, ostaggi di un sistema economico che è entrato in un circolo dove l’unica soluzione non può essere l’esternalizzazione e la precarizzazione, delle persone e delle regole.
Un’Italia più povera, dove sempre più facile morire di fango o bruciati vivi dentro a una fabbrica, dove l’economia parallela continua a funzionare perché sottrae risorse a quella ufficiale; la stessa Italia dove il confronto politico è bloccato su temi inutili ma capaci di costruire deboli consensi temporanei, proponendo l’abolizione dell’IMU o scatenando la rivalità tra cittadini, additando i lavoratori pubblici come un branco di fannulloni.
Ecco allora che il destino di chi muore nel Canale di Sicilia, in Sardegna sotto la pioggia o a Prato nella fabbrica-lager, cambia di ben poco: restiamo prigionieri di questa realtà, fatta di miopia ed egoismo, dove la preoccupazione per i propri figli è messa da parte, perché, oggi, la crisi è dentro di noi.

 

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