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La Corea di Kim Jong-un

di Mirko Spadoni

corea_del_nordLe foto scattate dal satellite raccontano una realtà diversa da quella ufficiale del regime. Perché le immagini, raccolte nel rapporto di Amnesty International, Corea del Nord: il continuo investimento nell’infrastruttura della repressione, e diffuso solo qualche giorno fa, “rivelano l’ulteriore allargamento di due dei più grandi campi di prigionia (kwan-li-so) del paese, il 15 e il 16”. Il primo campo di prigionia (il 15, noto anche come “Yodok”) si estende su un’area di 370 chilometri quadrati e si trova al centro del paese, a 120 chilometri dalla capitale Pyongyang. Secondo alcune stime riferite da Amnesty, nel 2011 si ritiene vi si trovassero 50.000 prigionieri. Il campo 16 si estende nei pressi di Hwaesong per circa 560 chilometri quadrati, un’estensione quindi tre volte Washington. Nel 2011, si riteneva vi fossero detenute 20.000 persone. “Molti prigionieri – denuncia Amnesty International – non hanno commesso alcun reato e sono unicamente familiari di presunti responsabili di gravi reati politici. La loro detenzione, basata sulla ‘colpevolezza per associazione’, rappresenta una forma di punizione collettiva”. Il rapporto di Amnesty International testimonia dunque come il sistema di repressione nordcoreano sia stato – e continui ad essere – rafforzato, un processo inevitabile per un regime la cui più grande preoccupazione è il mantenimento dell’ordine. Pyongyang, sosteneva qualche mese fa il Pentagono nel suo report annuale per il Congresso statunitense, teme infatti che le minacce esterne possano favorire una rivolta interna e mettere così a rischio la sopravvivenza del regime. Diviene così inevitabile soffocare – attraverso la repressione – qualsiasi tipo di dissenso, reale o presunto non importa. Nei campi di prigionia, i detenuti sono costretti ai lavori forzati “in condizioni pericolose, con poco tempo a disposizione per riposare”, denuncia Amnesty International. Molti prigionieri trovano però anche la morte, a volte per mano dei propri carcerieri. Nel novembre 2013 il signor Lee, addetto alla sicurezza del kwanliso 16 dagli anni Ottanta fino alla metà degli anni Novanta, ha rilasciato un’intervista ad Amnesty International, raccontando che a volte i prigionieri “vengono costretti a scavarsi la fossa e poi uccisi con un colpo di martello al collo”.
Dopo la morte del padre, Kim Jong il, che – come scriveva l’agenzia di stampa Kcna nei giorni immediatamente successivi alla sua scomparsa – “aveva il sublime desiderio di fare del popolo coreano il più felice ed orgoglioso del mondo”, Kim Jong un si è ritrovato alla guida di un Paese in perenne difficoltà e che sopravvive grazie – e principalmente – agli aiuti della Cina. Pechino è infatti il primo partner commerciale della Corea del Nord (nel 2011, gli scambi hanno raggiunto il valore di 6 miliardi di dollari) e anche il principale fornitore di energia, armi e cibo. Fin dal 1990, secondo Nicholas Eberstadt, consigliere della Banca Mondiale, la Cina ha fornito circa il 90% di energia, l’80% dei beni di consumo coreani e il 45 % del cibo. Tutto questo non ha impedito comunque lo scoppio di una grave carestia negli anni ’90, che ha causato la morte tra le 200 mila e i tre milioni di persone. Non ha permesso e non permette a Pechino di influenzare e determinare le scelte militari dell’alleato. “Nonostante la loro duratura alleanza e la dipendenza del regime dal vicino cinese – si legge in un rapporto del Council on Foreign Relations, citato qualche tempo fa da AgiChina 24 – la Cina non ha un così grande controllo sulla Corea del Nord”. “Gli americani – sosteneva Daniel Pinkstone, esperto di Nord-est asiatico all’International crisis group – tendono a sovrastimare il potere di Pechino sull’alleato, ma l’influenza sulle decisioni militari è minima”.
Inoltre da quando è diventato il leader del Paese, “Kim – come scrive il Guardian – ha cambiato radicalmente il sistema del potere in Corea del Nord”. E così, dopo aver dopo aver rimosso lo scorso anno “a causa di problemi di salute” Ri Yong Ho, allora capo militare e considerato uno dei suoi “mentori”, solo la settimana scorsa il leader nordcoreano ha ‘defenestrato’ Jang Song-Thaek, considerato il numero due del regime. Le accuse sono diverse: la versione ufficiale riferisce che, oltre ad avere un comportamento “dissoluto e depravato”, Jang Song-Thaek era alla guida di una corrente contro-rivoluzionaria. Il regime non è nuovo a situazioni del genere, ma il modus operandi di quest’ultimo caso lascia sorpresi: “Jang – sottolinea il Guardian – è stato rovesciato pubblicamente e in modo aggressivo”. La televisione statale Krt ha infatti mostrato la cacciata del numero due del regime da una riunione del partito dei lavoratori, mentre veniva portato via da uomini in divisa. “Raramente le purghe hanno coinvolto membri della famiglia del leader – ha commentato Andrei Lankov, esperto di Corea del Nord presso la Kookmin University di Seoul. “Questo ci dice qualcosa sullo stile del nuovo leader: il giovane – prosegue Lankov, citato dal Guardian – sembra davvero duro e brutale nel trattare con la gente che vuole distruggere”.
Parliamo quindi di un Paese leggermente diverso da quello immaginato dagli occidentali e molto lontano da quello descritto dall’agenzia di stampa Kcna, che nel dicembre del 2011 scriveva: “Grazie all’abnegazione” di Kim Jong il “la Rpdc occupa la posizione dei pochi paesi avanzati che fabbricano e lanciano satelliti artificiali e possiedono armi nucleari, riuscendo a sviluppare in modo vertiginoso la sua industria autoctona”. Il governo nordcoreano, sostiene un rapporto della Rand corporation stilato da Bruce Bennet, “ha mostrato segni di instabilità” e la maggioranza degli esperti “è concorde nel ritenere il collasso probabile”. Un collasso – ad oggi – ancora lontano dal concretizzarsi. Nel frattempo il 12 febbraio scorso, la Corea del Nord ha condotto il suo terzo test nucleare, dopo quello del 2006 e del 2009. Lo ha fatto scatenando le ire della comunità internazionale, che nel marzo seguente ha inasprito le sanzioni nei confronti del regime. La risoluzione, approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, prevede un giro di vite sulle operazioni finanziarie e sul movimento di fondi nordcoreani in giro per il mondo, oltre a un bando dettagliato alla vendita di prodotti di lusso (gioielli, automobili da corsa e yacht). Oltre alla disposizione di rigidi controlli sul personale diplomatico, soprattutto per quanto riguarda le attività bancarie e i trasferimenti di fondi illeciti. Stando alle rilevazioni sudcoreane, l’esplosione è stata scatenata da un ordigno di potenza non superiore ai 6-7 chilotoni, maggiore di quello usato nei primi due test, avvenuti nel 2006 e nel 2009, ma di potenza relativamente ridotta (la potenza della bomba esplosa a Hiroshima si aggirava attorno ai 20 chilotoni). Il portavoce del ministero degli Esteri nordcoreane giustificava così il test: “Dal momento che gli Usa stanno per innescare un conflitto atomico, sarà nostro legittimo diritto attaccare preventivamente il quartier generale dell’aggressore per proteggere i nostri supremi interessi”. Ma al di là dei test nucleari, della politica estera e della repressione interna, che Paese è la Corea del Nord? Pur definendosi come uno “Stato socialista e indipendente”, la linea politica nordcoreana si ispira ad una propria dottrina: “Il Juche”. “Il Juche o Chuch’e (주체, 主體) è un’ ideologia politica creata dal leader del Partito dei Lavoratori e primo capo del governo della Repubblica Popolare Democratica dei Corea, Kim Il Sung (vero nome Kim Sŏng Ju)”, spiegava a T-Mag qualche mese fa Giuseppina De Nicola, coreanista e antropologa presso la Seoul National University – Centro di Cultura Italia Asia. “Il Juche – proseguiva – è un’idea profondamente antropocentrica, esprime una visione dell’uomo come essere indipendente e consapevole del proprio ruolo all’interno della società che lo circonda. Egli è visto come un essere sociale solamente attraverso l’indipendenza (chajusŏng). L’articolo 4 della Costituzione, promulgata nel 1972, sancì il Juche come vera e propria dottrina governativa: in esso si dichiara che la Corea del Nord è guidata nelle sue attività dal Juche. Kim Il Sung vide tre campi di applicazione nella politica: indipendenza da un punto di vista ideologico e politico (chaju); autosufficienza economica (charip); ed un sistema nazionale di difesa anche esso autosufficiente (chawi)”.
Ed è proprio l’ultimo campo di applicazione del Juche (il chawi, per l’appunto) che rende possibile i grandi investimenti nel settore militare: “L’indipendenza in questo campo – spiegava De Nicola – si attua attraverso il Sŏngun, che letteralmente significa ‘l’esercito al primo posto’, e indica la centralità e l’importanza dell’Esercito Popolare nella politica e nell’economia del Paese”. E così in un Paese dove la popolazione totale è di 24.457.492 cittadini, i militari in servizio attivo sono 1.190.000, i paramilitari 189mila, mentre i riservisti sono 600 mila unità. La spesa militare è pari al 25% del Pil. Una percentuale elevata, tanto per farsi un’idea: il vicino sudcoreano investe il 2,8% del Pil. L’esercito può contare – secondo i dati della Banca mondiale e l’IISS (International institute for strategic studies) – su 3.500 carri armati, l’aviazione dispone invece di 523 aerei d’attacco, 80 bombardieri e 302 elicotteri. La marina ha a propria disposizione 3 navi da guerra, 388 pattugliatori, 24 dragamine, 72 sottomarini e 10 mezzi anfibi. “Sebbene ufficialmente la società della Corea del Nord si proclama senza classi sociali, liberata dal fardello del feudalesimo, di fatto – sottolinea De Nicola – esiste una divisione in coloro che hanno potere politico e coloro che non ce l’hanno, con un’evidente disuguaglianza nella distribuzione di privilegi e guadagni. In cima alla piramide ci sono i membri della famiglia di Kim Il Sung, a seguire vi sono i suoi camerati e le loro famiglie. Lo strato seguente è occupato dalle famiglie dei veterani della guerra tra le due Coree e da quelle degli ufficiali che hanno partecipato ad azioni di sabotaggio anti – sudcoreane. I figli e i discendenti di queste classi vengono educati in scuole dedicate agli eroi della rivoluzione e avranno migliori opportunità di carriera. Gli altri cittadini vengono divisi in ranghi in base alla loro storia familiare e alle loro origini rivoluzionarie. Lo status – conclude – viene continuamente sottoposto a revisione e se un membro della famiglia compie un crimine tutta la famiglia subirà un declassamento di rango”.

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