I giornalisti nel 2013 (molti quelli rapiti)
Settantuno. Così tanti sono i giornalisti uccisi nel 2013 mentre esercitavano la loro professione. Un numero però in calo rispetto all’anno precedente, quando i cronisti che persero la vita furono 88. Questo è quanto emerge dall’ultimo rapporto annuale, pubblicato nella giornata di mercoledì, da Reporter senza frontiere (Rsf).
Quasi quattro giornalisti su dieci (il 39%) sono stati uccisi in zone di guerra. Mentre l’8% erano freelance. Ma se è vero che il numero dei giornalisti uccisi è diminuito altrettanto vero è che aumentato quello dei rapimenti, passato dai 38 casi rilevati nel corso del 2012 agli 87 denunciati nell’ultimo anno, ovvero – in termini percentuali – ben il 129% in più. La maggior parte dei rapimenti è avvenuto nel Medio Oriente e in Nord Africa (71 casi), seguito dall’Africa subsahariana (11). Tra tutti i Paesi, la Siria resta – sempre e comunque dall’inizio delle rivolte nel marzo del 2011 – quello dove i giornalisti corrono i maggiori rischi. Perché è qui che si è registrato un numero elevato di morti (10), ma anche il maggior numero dei rapimenti (49). “In Siria – spiega Rsf – i giornalisti sono diventati alcuni degli obiettivi sia delle forze leali al presidente Bashar al Assad sia dei gruppi islamici come Jabhat al Nusra e dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante”. Questi ultimi, si legge ancora nel rapporto, “tendono a considerare il giornalista come una spia o un infedele”. Alla fine del 2013, il giornalista siriano Mohammed Saeed e il giornalista iracheno Yasser Faysal Al-Joumaili sono stati uccisi per mano dei gruppi islamici.
I 71 giornalisti uccisi nel 2013 lavoravano per la carta stampata (37%), il 30% per la radio e alla televisione (30%). Solamente il 3% scrivevano per conto di alcune piattaforme di informazione online.
Ma c’è anche un altro rapporto, questa volta stilato dal Comitato per la protezione dei giornalisti, che provvede a fotografare lo ‘stato di salute’ dell’informazione mondiale, certificando – denunciandoli – i casi dei giornalisti “messi in prigione per il loro lavoro”. E anche in questo caso non c’è molto da stare sereni: “Perché – come sottolinea il Cpj – è il segno di una società intollerante e repressiva”. Ma chi detiene questo triste primato? Stando ai dati aggiornati al primo dicembre, risulta che è la Turchia. Nelle carceri turche, sono detenuti ben 40 giornalisti. Un numero leggermente inferiore rispetto a quello dell’ottobre del 2012, quando erano 61, ma decisamente superiore a quello di paesi come Iran (35), Cina (32), Eritrea (22) e Vietnam (18).
Ma nel rapporto di Cpj compare anche il nome del nostro Paese. Le carceri italiane ospitano infatti un giornalista: Francesco Gangemi, direttore della rivista mensile Il Dibattito.
Accusato di diffamazione e falsa testimonianza, il 79enne giornalista è stato condannato a sei anni di detenzione, pena poi ridotta a due anni. Ora Gangemi, in gravi condizioni di salute, sta scontando la sua pena agli arresti domiciliari.
“Nel settembre 2013 – scrive Cpj – la Corte europea dei diritti dell’uomo ha trovato l’Italia in violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (libertà di espressione) per dare un direttore di giornale una sospensione di quattro mesi di carcere per il reato di diffamazione. Nonostante i continui appelli a livello nazionale ma anche internazionale, che chiedono di depenalizzare il reato di diffamazione, il parlamento italiano ha finora mancato di riformare le sue leggi, che risalgono al 1930”.
segui @SpadoniMirko
You’ve really captured all the estisneals in this subject area, haven’t you?