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Per la ripresa c’è ancora da aspettare

di Carlo Buttaroni

pil_crisi_economicaSe la prima ondata della crisi economica, tra il 2008 e il 2009, è stata dura, la seconda, arrivata nel 2011 dopo una parziale ripresa economica, è stata devastante. Basti pensare che nel 2009 la spesa delle famiglie italiane è diminuita a 843miliardi di euro, rispetto agli 863 miliardi di due anni prima. Nel 2010, la temporanea ripresa ha ridato ossigeno ai consumi (+12 miliardi), ma nel 2011 si è registrata una nuova contrazione, prima modesta (- 2miliardi), seguita da un vero e proprio crollo nei due anni successivi (-35miliardi nel 2012 e -20 miliardi nel 2013). Una crisi da vero e proprio KO, come testimoniano proprio i dati sui consumi delle famiglie: -20miliardi tra il 2007 e il 2009 e -55 miliardi tra il 2011 e il 2013. Un andamento che si traduce in un balzo indietro di quindici anni. Anche l’occupazione ha seguito un percorso analogo: tra il 2007 e il 2009 il saldo è stato di 200mila unità in meno, mentre tra il 2011 e il 2013 gli effetti si sono triplicati con la perdita di 600mila posti di lavoro. Gli occupati sono tornati ai livelli del 2004, con la differenza, però, che l’Italia ora ha quasi 2milioni di abitanti in più. Un Paese, quindi, che se dopo la prima crisi è rimasto in piedi, con la seconda è finito in ginocchio. Dove siano i problemi lo si capisce immediatamente se si mettono a confronto la domanda interna e le esportazioni, cioè le due principali componenti del Pil. Mentre la prima, tra il 2010 e il 2013, è calata di quasi 9 punti (se nel 2010 era 100 nell’ultimo anno è scesa a 91,1), la seconda, nello stesso periodo, è cresciuta di 9 punti. Le esportazioni, però, contribuiscono all’andamento del Pil per meno di un terzo del totale e questo spiega la variazione negativa registrata nell’ultimo anno (tra -1,8 e -1,9%).
Nel 2013, tra le economie avanzate, l’Italia ha registrato l’outlook peggiore e la fase recessiva di più lunga. E a fare la differenza è proprio la sofferenza della domanda interna che ha risentito delle politiche di bilancio fortemente restrittive messe in campo negli ultimi due anni. Politiche che hanno frenato i consumi e alimentato la spirale recessiva. A tutto questo ha contribuito anche la stretta del credito, che ha ulteriormente compresso il mercato interno.
La crescita del Pil che si registrerà nel 2014 sarà determinata essenzialmente dal miglioramento del contesto internazionale. In altre parole, sarà la crescita delle altre economie a portare un po’ di ristoro all’Italia e a trainarla verso l’atteso segno “+”. Ma sarà una crescita debole (tra +0,6 e +0,8) accompagnata da un tasso di disoccupazione ancora in aumento e da consumi interni abbondantemente sotto i livelli pre-crisi. Non chiamiamola, quindi, ripresa. Anche perché, nel frattempo, le altre economie sono uscite dal tunnel della crisi prima di noi e crescono a velocità ben diversa da quella dell’Italia, accentuando il divario. Anche in questo caso i dati sono inequivocabili. Fatto 100 il livello del Pil del 2010, nel 2014 quello dell’Italia scenderà a 96,9, mentre quello del mondo salirà a 114,3. Stessa dinamica rispetto ad altre economie: i Paesi della zona euro nel 2014 dovrebbero attestarsi a 104,6, gli Usa a 109, il Giappone a 104,7, i Paesi avanzati a 106,4 e quelli emergenti a 122,4.
Analizzando gli andamenti delle diverse economie durante l’intero periodo di crisi, si scopre anche che i Paesi che si sono rimessi in marcia a velocità sostenuta sono quelli che hanno fatto registrare una ripresa della domanda interna. Chi, invece, oggi fatica a ripartire dopo la lunga fase recessiva (ed è proprio il caso dell’Italia) ha fatto registrare il crollo della domanda interna, seguita da una sostanziale stagnazione dei consumi, pur essendo cresciuto, nel frattempo, il livello delle esportazioni. In sostanza, se la domanda interna cresce, allora anche il Pil segue lo stesso andamento. Al contrario, se la domanda interna langue, cala l’occupazione e il Pil si contrae. Le esportazioni non possano far molto per compensare il deterioramento economico, come dimostra la debole crescita che si prospetta per il 2014 in tutta l’eurozona, dopo la cura dell’austerity messa a punto nei laboratori di Bruxelles, che ha avuto effetti pesanti proprio sui redditi e sui consumi.
Una cura che si è dimostrata, alla prova dei fatti, una follia, ma che ancora si continua a somministrare come se nulla fosse accaduto, nonostante la ormai certezza che si poteva risparmiare tanta sofferenza alle popolazioni con politiche economiche espansive anziché recessive.
Oggi l’Italia è intrappolata nell’illusione di una ripresa talmente debole da apparire un prolungamento della crisi. Con un paradosso: il miglioramento di alcuni parametri economici si stanno traducendo in una crescita del risparmio anziché dei consumi. D’altronde, due anni di politiche del “rigore dei bilanci pubblici”, sorde ai bisogni della popolazione, ha sfiancato la fiducia dei cittadini. Un ingrediente, questo, che nell’economia reale è più importante di quella dei mercati. Un sentimento di diffuso pessimismo che, insieme alla contrazione dei consumi e alla crescita della disoccupazione, rappresentano le principali conseguenze delle politiche “lacrime e sangue”.
Per entrare nella traiettoria della ripresa serve una riqualificazione della spesa pubblica, che liberi risorse da destinare alla riduzione della pressione fiscale, occorre incoraggiare le assunzioni attraverso una sostanziale riduzione degli oneri sul costo del lavoro, avviare politiche dei redditi per dare ristoro alle famiglie e riuscire a stimolare la domanda interna. Così com’è del tutto evidente che se non si ricostruisce un ceto medio corposo, il Paese troverà con sempre maggiore difficoltà le risorse per crescere economicamente e socialmente, approvvigionarsi finanziariamente e fare quegli investimenti che servono a far crescere il Pil e l’occupazione. Finora si è agito in senso opposto, col risultato che la spesa delle famiglie è diminuita ed è cresciuto il tasso di disoccupazione, soprattutto nelle sue componenti più pericolose, quella giovanile e quella di lunga durata. Entrambe anticamera di quella disoccupazione strutturale, non legata cioè ai cicli economici, che rischia di trasformare il sogno della ripresa in un incubo.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 10 febbraio 2014. Sfoglia l’indagine in pdf

 

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