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La grande fuga delle imprese italiane

di Mirko Spadoni

partenza_crisi_politicaL’Italia ha davanti a sé una sola possibilità: “Agganciare il treno della crescita”. Questo il monito del leader di Confindustria, Giorgio Squinzi, che solo qualche giorno fa, parlando al convegno Far ripartire il nord per far ripartire l’Italia, aveva bollato come “parziali o contingenti” le risposte fornite fino ad ora per risolvere i “problemi” che le aziende italiane sono costrette – quotidianamente – ad affrontare. I problemi con cui le imprese devono fare i conti restano tali, appare così inevitabile quanto certificato nel 26esimo Rapporto Italia Eurispes, secondo cui nel corso del 2013 (dati relativi solo al III trimestre dell’anno) le aziende italiane costrette a chiudere i battenti sono state 74.308. “A soffrire maggiormente – sottolinea l’Eurispes – sono le attività commerciali al dettaglio e all’ingrosso di autoveicoli”. Decisamente “più ampio” è il numero delle imprese che dal 2008 sono state costrette a far cessare la propria attività: 432.086.
Ma le aziende italiane cercano di reagire. Come? Delocalizzando le proprie attività, ad esempio. Solo nel corso del 2011, si sono registrati “ben” 27.000 casi. Un incremento notevole (+65%) rispetto al 2000 e leggermente più contenuto rispetto al 2008: +4,5%. La delocalizzazione comporta la creazione di nuovi posti lavoro all’estero: alla fine del 2011 erano 1.557.000. Tra le mete preferite degli imprenditori italiani troviamo la Francia. La Romania al quarto posto, al settimo la Cina e al decimo la Polonia.
Cresce il numero delle imprese italiane che vola all’estero, quindi. Così come è in aumento “il numero degli immigrati titolari di imprese, o soci, o amministratori”: +40,4% tra il 2005 e il 2010, secondo i dati Cna. Alla fine del 2010, in valore assoluto, erano 415.394. “Di contro – si puntualizza nel Rapporto Italia – nello stesso periodo si registra una decrescita dell’imprenditoria italiana pari al 9,1%”.
“Ma perché – si chiede l’Eurispes – le imprese italiane volano oltreconfine?”. La risposta è semplice: il fisco e il suo peso eccessivo. La pressione fiscale effettiva, ad esempio, nel nostro Paese e secondo i dati dell’Ufficio Studi di Confcommercio si attesta al 54% del Pil (+2,7% tra il 2000 e il 2013). Tanto per citare qualche esempio: negli Stati Uniti è al 27,9%, nel Regno Unito al 40,4% e in Spagna al 36,7%. Per la tassa sull’utile, pari al 20,3%, il nostro Paese occupa il nono posto, dietro Paesi Bassi (20,8%), Spagna (21,2%), Regno Unito (21,6%), Germania (23%), Israele (23,3%), Norvegia (24,8%), Giappone (27,2%) e Stati Uniti (27,9%).
“Prendendo in esame le imposte sul lavoro e dei contributi, l’Italia (43,4%) è superata solo dalla Francia (51,7%). In Romania si ha una percentuale di tassazione pari al 31,5% e in Cina al 19%”. Infine: l’Iva. Con il 22%, l’Italia è – in ordine decrescente – il decimo Paese. Al primo posto vi è l’Ungheria con il 27%. Al quinto posto la Romania (24%). Il Paese dove viene pagata l’Iva più bassa è il Lussemburgo (15%), seguito da Malta e Cipro (entrambi al 18%) e Germania (19%).
Nonostante tutto, “l’Italia è ancora un Paese attrattivo per gli imprenditori stranieri”. I dati sono evidenti e descrivono però una realtà preoccupante: dal 2007 al 2012, gli investimenti esteri sono crollati circa del 70,6%. Passando dai circa 34 milioni di euro del 2007 ai 10 milioni del 2012 (dati Boston Consulting Group). Mentre secondo il rapporto Global Trade Enabling 2012 del World Economic Forum, il nostro Paese si posiziona sessantaduesimo su 132 per quanto concerne l’apertura alla partecipazione di capitali stranieri in imprese nazionali.

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