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Una lezione utile, non solo per gli Usa

di Andrea Ferraretto

hopeLa prima cosa che colpisce è la distanza, tra un mondo, quello degli USA che, nel 2008, dimostrò che sarebbe finita l’era Bush e, in qualche modo, il dramma delle Torri gemelle, andava superato e la realtà che vive l’Italia, da anni, senza che si riesca a vedere una via d’uscita.
Un cambiamento che ha affrontato uno dei periodi più difficili, con una crisi economica e sociale senza precedenti, con la necessità di rimettere in piedi una nazione in un contesto mondiale che, nel frattempo è cambiato, in modo profondo. Una forza che ha saputo proporre e sostenere il cambiamento, rivoluzionando le strategie di comunicazione politica, riportando al centro, i bisogni delle persone normali. La seconda cosa è proprio il modo di affrontare il rapporto con i cittadini, ricostruendo un clima di empatia e di fiducia che, nel 2008, si fondò su “hope and change”, interpretando le difficoltà e la stanchezza di un paese fiaccato dalla crisi e dalle missioni militari in Afghanistan e Iraq. Una delle chiavi comunicative più forti, se non la dominante, della campagna di Barak Obama è stata proprio quella di “essere vicino alle persone normali”, con un forte senso di condivisione (anche tramite i social media) e di comunità.
Un’analisi puntuale e approfondita del successo delle campagne elettorali del 2008 e del 2012 è racchiusa nel libro, scritto da Stefano Lucchini e Raffaello Matarazzo (La lezione di Obama, Baldini e Castoldi editore): un viaggio attraverso la “macchina” elettorale che ha progettato e realizzato il percorso che ha portato Barak Obama alla rielezione alla Casa Bianca. Un successo elettorale che ha superato ogni previsione, riuscendo a coinvolgere fasce di popolazione che non avevano votato nelle precedenti tornate ma, soprattutto, innovando la strategia e l’utilizzo delle tecnologie per raggiungere il sentimento delle persone, toccando la parte emotiva di ciascuno. Un grande lavoro di ground game, “… il lavoro di persuasione e mobilitazione diretta casa per casa, elettore per elettore, che è stata portata a straordinari livelli di capillarità e precisione, incrociando migliaia di dati sui consumatori, anche attraverso nuove tecnologie come le applicazioni per tablet e smartphone, nonché facendo ricorso a centinaia di uffici locali con migliaia di volontari”.

Leggere quanto è stato svolto, in termini di complessità e di capacità organizzativa dagli strateghi della campagna di Obama, fa diventare ancor più precaria e debole la situazione della comunicazione politica italiana: una situazione dove l’astensione diventa la variabile non più controllabile e l’antipolitica attraversa, in modo viscerale, ogni schieramento. Perché siamo il paese dove si è creduto di convincere gli elettori invitandoli a smacchiare giaguari, promettendo di usare apriscatole, invocando miracoli italiani capaci di produrre milioni di posti di lavoro: ma sempre in un’ottica nella quale il voto serviva a contrapporsi ad altri, un voto “contro”. Le differenze con la campagna di Obama sono tante ma, spesso, sono differenze che rendono ancor più evidente a crisi del sistema politico italiano, come, per esempio il tema tanto usato (e abusato) del costo della politica: quella di Obama è stata una delle campagne più costose ma, in quel caso, ha funzionato anche il coinvolgimento dei singoli sottoscrittori.
Sono più le distanze che le similitudini tra l’Italia e gli USA eppure, leggendo “La lezione di Obama”, si intuisce quali potrebbero essere le opportunità per modificare la strategia di comunicazione che, oggi, è tuttora bloccata in una logica di schieramenti, alleanze, grandi intese ma senza la capacità di individuare un hope and change italiano: dove messaggio e tattica devono, per forza di cose, essere legati a un’iniezione di competenza e capacità.
barack_obamaUn esempio, semplice e diretto, può esser dato dall’uso, tuttora artigianale e superficiale che viene fatto dei social media come strumento di comunicazione politica: siti web, facebook, twitter, restano ancora un esperimento, usato in modo estemporaneo e senza comprendere la portata reale in termini di contatto e interazione con i cittadini. Si cerca di dare un carattere innovativo per cui si parla di spin doctor, gosth writer, volontariato digitale, quick donate, ma sempre in modo sperimentale, senza crederci (e investirci) fino in fondo.
Sono talmente frequenti gli “incidenti” che la trasmissione di RAI3 Gazebo ne ha fatto uno dei sui punti di forza, con la “Top social ten” che raccoglie e commenta le uscite più incredibili e risibili di quella che dovrebbe essere la punta avanzata del dibattito politico 2.0 in Italia. Non è solo l’hastag sbagliato o il retweet senza senso: anche esperimenti più complessi, come quelli di raccogliere idee e proposte per predisporre i programmi elettorali sono rimasti fermi su un binario morto, senza alcun feedback e capacità reale di coinvolgere i cittadini.
D’altronde le storie delle varie fabbriche del programma, le officine e i forum, hanno dimostrato solo timidi accenni alla possibilità di costruire campagne elettorali basate su quella tecnica di micro-targeting che ha rappresentato il valore aggiunto di Barak Obama. C’è una differenza di approccio e di apertura al cambiamento laddove, in Italia, il dibattito e la circolazione delle idee è ancora condizionata dalle intercettazioni e dai verbali giudiziari piuttosto che dall’adozione di open data e altre tecnologie in grado di avvicinare piuttosto che respingere.

La politica 2.0 e, più in generale la social innovation, è lontana a venire qui in Italia: i temi più sensibili, quelli sui quali si gioca la differenza reale tra gli schieramenti come i diritti civili, le politiche di inclusione, la sostenibilità ambientale, sono ancora considerati come un terreno minato, da accennare nei programmi e da utilizzare come miccia da innescare per far salire la polemica ma poi, spenti i riflettori, si cerca di mettere da parte la capacità concreta di imprimere il cambiamento.
Non è un caso se, una serie TV “Borgen” ideata da una produzione danese, descriva un mondo politico completamente distante dall’Italia, dove il confronto avviene tra un modello culturale e sociale che mostra tutte le differenze (e le lacune) di quello che stiamo vivendo. Questa difficoltà si traduce anche nella vita quotidiana, nell’incapacità della Pubblica amministrazione di cogliere la sfida dell’innovazione e del cambiamento, investendo in trasparenza e semplificazione delle procedure: in questo, i ritardi strutturali, si trasformano in un limite allo sviluppo e alla trasformazione della società. Smart cities, lotta al digital divide, open data, diventano argomenti complessi e poco realistici in un sistema che affronta con difficoltà il cambiamento e la ricerca di un nuovo baricentro tra crisi e frontiera del futuro.

Una campagna elettorale bottom up, quella che viene descritta da Lucchini e Matarazzo, una macchina capace di contattare e coinvolgere centinaia di milioni di persone, questa è la differenza fondamentale tra una web politic, usata con intelligenza per incontrare consensi e finanziamenti e, in sostanza, una TV politic, quella italiana, dove conta molto la visibilità del candidato ma, molto meno, la possibilità di interazione, di condivisione di idee e di aspettative con i singoli elettori.
I comitati elettorali statunitensi, quelli dove sono ambientati film come Taxi driver o Le Idi di Marzo, resteranno, ancora per qualche tempo, un’immagine distante dall’Italia: un processo si è innescato, anche grazie all’introduzione delle primarie e di altre forme di consultazione, ma la strada da percorrere per un modello made in Italy di politica nuova, è lunga e difficile.
Il momento è complicato anche perché bisogna saper cogliere la difficoltà di un rapporto tra politica e cittadini che è entrato in crisi dove, l’obiettivo principale non dovrebbe essere quello di convincere lo “zoccolo duro” quanto piuttosto intercettare quella parte di cittadini che vive un periodo di sfiducia, precarietà e assenza di fiducia nelle istituzioni che dovrebbe essere ricostruito, pezzo per pezzo.
La lezione di Obama può essere uno stimolo in più per capire che è necessario investire, neanche a farlo apposta, anche in questo caso, in merito e competenza, perché non è possibile improvvisare e inventare una strategia con gli stessi ingredienti del passato.

 

1 Commento per “Una lezione utile, non solo per gli Usa”

  1. […] escluse e da uno slogan che potrebbe essere importante anche per l’Italia, oggi: Hope and Change. “Una lezione utile, non solo per gli USA”: riflessioni sul libro La lezione di Obama, un’analisi puntuale e approfondita del successo delle […]

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