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Il veloce Matteo

A poco meno di una settimana dall'insediamento del governo Renzi, il ritratto del più giovane presidente del Consiglio della storia repubblicana
di Fabio Germani

matteo_renzi“Se può fare il premier uno come me, che è un ragazzo sotto i 40 anni, è un segnale per le ragazze e i ragazzi che pensano che niente è possibile”, disse un giovanotto al Quirinale svelando ai giornalisti la lista dei ministri che avrebbero composto il nuovo governo. Qualcuno ha poi trasformato il pensiero in se ce la posso fare io, ce la possono fare tutti. La realtà dei fatti è però diversa. Arrivare in cima al mondo è spesso un’impresa impossibile, ma per Matteo Renzi arrivare in cima all’Italia è stato un percorso tanto ostico quanto rapido. Cosicché, a un certo punto, si è creato attorno alla sua figura il mito della velocità.
Presidente della Provincia di Firenze a 29 anni, due lustri più tardi, non ancora quarantenne, è presidente del Consiglio. Nel frattempo, a 34 anni, viene eletto sindaco di Firenze. La sua scalata ha conosciuto anche momenti di difficoltà. Intanto proprio a Firenze, dove all’epoca ha dovuto superare le resistenze dell’establishment del Pd. E poi di nuovo nel 2012 quando perde le primarie – che lui vuole e ottiene – per la premiership in vista del voto di febbraio. Cambiate le regole in corsa, si presentano in tanti alla competizione: lui, ovviamente il segretario Bersani, Laura Puppato, Nichi Vendola di Sel, Bruno Tabacci di Centro Democratico. Ovviamente vince il segretario Bersani.
La storia non si può chiudere qui. Lo sanno tutti. Lo sa lui, lo sa Bersani che non sfonda alle politiche e che non riesce a formare il governo coinvolgendo chiunque tranne il centrodestra, lo sa Letta che alla fine riesce a formare il governo coinvolgendo chiunque tranne i grillini e, soprattutto, lo sa D’Alema. Il problema è che già da tempo, mentre era ancora sindaco di Firenze, Matteo – nel senso che ormai non è più Renzi il sindaco di Firenze, bensì Matteo, per amici e non – si mette in testa di voler cambiare l’Italia. Ha ben chiaro che per farlo dovrà rottamare la vecchia classe dirigente e permettere a quelli della sua generazione di prenderne il posto. “Tocca a noi”. Da bravo oratore quale è, organizza incontri pubblici sparsi per il Paese, si circonda di personaggi di spessore, fissa appuntamenti alla Leopolda di Firenze dapprima con il futuro “rivale” Pippo Civati e in seguito in solitaria. Gli garbano di più le partite di singolo, a Matteo.
Il processo naturale per Matteo è rottamare innanzitutto la classe dirigente del suo partito. Via i D’Alema e le Bindi, largo ai giovani. D’Alema lo anticipa e decide di non ricandidarsi, Bindi no. Dettagli, perché a dicembre del 2013 arriva il momento di rinnovare la segreteria del Pd. Partono in quattro – Cuperlo, Civati, Pittella, Matteo –, restano in tre – Cuperlo, Civati, Matteo –, vince Matteo. Come da pronostico, stavolta.
Da segretario del primo partito italiano assicura lealtà ad Enrico Letta. In tv lancia addirittura l’hashtag #enricostaisereno, però l’esecutivo deve osare di più. Intanto accelera, perché Matteo corre, sulle questioni prioritarie tipo il lavoro e la legge elettorale. Presenta il jobs act (in pillole) e qualche giorno più in là si incontra con Silvio Berlusconi. Non ad Arcore, come fu ai bei tempi andati, ma violando la sacralità del Nazareno. Orrore. In compenso – orrore bis – emerge una sinergia tra i due sul tema delle riforme istituzionali. Letta osserva sospettoso in silenzio. Passano poche settimane e la direzione del Pd stabilisce, a larga maggioranza nonostante alcune voci discordanti, che per Letta è giunta l’ora x. È una crisi extraparlamentare che si risolve rapidamente. Di venerdì Letta sale al Colle e rassegna le dimissioni irrevocabili da presidente del Consiglio, il lunedì successivo Matteo sale al Colle e ottiene dal capo dello Stato l’incarico di formare il nuovo governo.
Vincere le elezioni, che pure da sempre è il suo principale obiettivo, è cosa da rimandare a data da destinarsi. L’Italicum esiste solo sulla carta e il consultellum non garantisce governabilità. “Quindi andiamo a Palazzo Chigi e cominciamo a fare finalmente le cose”, suggerisce ai suoi. Così è.
I giornali pubblicano le foto del premier incaricato pensieroso, che va da un palazzo della politica all’altro a piedi, che prende il treno per fare rientro a Firenze: i cronisti seguono qualsiasi suo spostamento quasi fosse una rockstar. Un’ossessione mediatica. In una settimana Matteo riesce a confermare la medesima maggioranza di Letta, con le larghe intese ormai un po’ strettine. Supera gli attriti con Alfano e dà vita al nuovo esecutivo, comunque rinnovato nella forma e nelle persone. Pochi ministeri, la metà guidati da donne. Per taluni commentatori è il governo Leopolda, per altri il governo Matteo. C’è chi giura che se anche Matteo dovesse fallire allora significherebbe che per l’Italia non c’è più scampo.
“Non falliamo”, giura Matteo. E se falliamo, “la colpa sarà nostra”.

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