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Ma la Crimea non è il Kosovo

di Giampiero Francesca

vladimir_putinNon sarà ancora calata una nuova cortina di ferro, ma le tensioni fra Russia, Stati Uniti ed Europa sembrano, di giorno in giorno, inasprire i toni. Quanto sta accadendo in Crimea è infatti, prima di tutto, una rivendicazione di influenza politico-militare, una partita per la ridefizione di equilibri in cui nessuna delle parti può permettersi di cedere terreno. Prima che sul campo di battaglia però questo scontro si sta svolgendo sui network e sui siti di tutto il mondo, in una continua ed affannosa ricerca del consenso. Guadagnare e mantenere i favori dell’opinione pubblica è infatti, accanto all’attività diplomatica, la principale necessità delle parti in causa. Non è dunque un caso se Vladimir Putin abbia risposto alle denunce americane ed europee richiamando alla mente la cosiddetta ipocrisia occidentale e accomunando le vicende di questi giorni con quanto accaduto in Kosovo nel 1999. La memoria dei governi europei ed americano sarebbe infatti così breve da non riconoscere la sostanziale identità tra l’intervento della NATO a favore della popolazione albanese nella regione slava e quello delle forze russe nella penisola sul Mar Nero. Un oblio volontario che i media di Mosca hanno immediatamente ripreso, evidenziando l’illegittimità, a loro modo di vedere, delle accuse occidentali. Un clima ben rappresentato dalle dichiarazioni di un presentatore televisivo di Россия 1 che, durante un approfondimento sulla crisi, ha affermato, “il Kosovo ha il diritto di autodeterminarsi, la Crimea no”, ma anche dall’editoriale di Russia Today dall’emblematico titolo “5 referendums that the West has not taken issue with”.

Parallelismi impossibili
Viene dunque da chiedersi se siano davvero così simili le questioni in analisi e se, come effettivamente già accaduto in passato, le accuse statunitensi siano fondamentalmente ipocrite. Per rispondere a questo quesito senza scivolare nella retorica di propaganda è necessario evidenziare i punti di contatto e le differenze presenti fra queste due gravi crisi internazionali. Va, ad esempio, riconosciuto come, almeno fino ad ora, l’intervento di Mosca a Sinferopoli sia avvenuto in modo molto più accorto e pacifico di quanto fatto a Pristina nel 1999 dalla NATO. Migliaia furono infatti le vittime dei continui raid aerei caratterizzarono la guerra nei Balcani. Ma il contesto dell’azione, le circostanze che portarono all’attacco, le manovre politico-diplomatiche che lo anticiparono non possono essere in alcun modo accomunate. La situazione in cui versava la popolazione albanese in Kosovo non è infatti assimilabile in alcun modo a quella vissuta dagli abitanti di origine russa in Crimea. Ben prima dell’intervento militare, il 31 marzo 1998, gli USA avevano infatti presentato una risoluzione, la 1199, che evidenziava “l’eccessivo ed indiscriminato uso della forza da parte dell’esercito serbo nei confronti dei civili”. Le discriminazioni e gli abusi subiti dalla popolazione albanese, ampiamente documentati da vari report sui diritti umani, non trovano alcun riscontro possibile nel quadro dell’attuale Crimea. E’ inoltre importante sottolineare come, mentre in Kosovo la percentuale di popolazione di origine albanese toccavo l’88%, gli abitanti origine russa in Crimea non superano il 60%. Si può dunque discutere, come sempre in questi casi, sulla necessità e l’utilità di un intervento armato, ma non si può non riconoscere la sostanziale differenza delle due crisi. La stessa presenza di una risoluzione evidenzia poi la volontà americana, per la verità in molti altri casi non altrettanto chiara, di dare una legittimità internazionale all’intervento.

Dieci anni vs. un mese
Anche se il vero attacco avvenne senza l’egida delle Nazioni Unite è indiscutibile il tentativo da parte statunitense di ottenere un avallo a livello di organismi transnazionali. Cosa che certamente non può dirsi per quanto fatto da Mosca oggi. La strategia di messa in atto da Putin è, infatti, indiscutibilmente unilaterale e di una rapidità sorprendente. Quasi in contemporanea con il cambio di governo a Kiev l’esercito russo iniziava la sua occupazione di parte del territorio in Crimea. Una presenza che ha certamente influenzato anche sulle votazioni per l’annessione o l’indipendenza della penisola. Elemento questo che differenzia ancora una volta le due situazioni in analisi. Come si possono accomunare dieci anni di lunga e sofferta transizione con un estemporaneo e quasi improvviso referendum? Nel giro di un mese infatti in Crimea è stato sostituito il primo ministro, stravolto il parlamento e posto alla guida dell’agenda politica il partito indipendentista che, alle ultime elezioni, contava solo un 4%. Contemporaneamente 14.000 soldati russi prendevano posizione nella piccola penisola. E’ in questo contesto che sono stati chiamati a votare gli elettori per un referendum che presenta un’ultima, sostanziale, differenza con tutti gli altri casi presi in esame dai media russi. Nelle schede di voto in Crimea infatti non era prevista la possibilità di mantenere lo status quo. La domanda posta al corpo elettorale era dunque una e semplice: annessione o indipendenza?

 

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