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Tutti i pericoli della deflazione

di Giampiero Francesca

bceLe stime presentate dall’Eurostat circa la rilevazione preliminare sull’inflazione nel mese di marzo hanno riacutizzato l’allarme sul livello dei prezzi in Europa. I dati presentati dall’istituto di statistica fermano l’asticella del tasso di inflazione ad un misero +0,5%, in calo rispetto al già preoccupante dato di febbraio (+0,7%), e, soprattutto, molto al di sotto delle stime previste dalla BCE per il 2014 (+1,1%). Prima di affrontare nelle specifico la questione è importante però chiarire cosa sia esattamente il tasso di inflazione e quale ruolo giochi all’interno di un sistema economico. Questo indicatore rappresenta, infatti, la variazione, nel tempo, del livello generale dei prezzi. Quando questo indice scende al di sotto dello 0 si ha, tecnicamente, una situazione di deflazione. Più nel concreto, dunque, un aumento del tasso di inflazione corrisponde ad un incremento medio dei prezzi e, di conseguenza, ad una diminuzione del valore del denaro. Riportata in questi termini una situazione di deflazione (che corrisponde ad un aumento del valore del denaro) potrebbe apparire, utilizzando un fuorviante buon senso, ideale. Ma non è così.

I rischi della deflazione
In primo luogo un calo generalizzato dei prezzi produce, infatti, una spirale di risparmio negativa. Come ben mostrato da Keynes, in tempi di crisi il risparmio può essere, infatti, molto dannoso in quanto, provocando una diminuzione della domanda aggregata, causa una flessione della produzione e dell’occupazione. Scendendo ancora una volta nella prassi con una situazione di tendenziale calo dei prezzi i consumatori sono portati ad attendere livelli sempre più bassi prima di spendere il proprio denaro. Allo stesso modo le aziende ritarderanno eventuali investimenti nella speranza di approfittare di un un costo più basso. Non è quindi difficile comprendere come questa catena di eventi provochi un circolo vizioso con effetti su tutto il sistema economico. Ma la spirale negativa di cui parla Keynes non è l’unica ragione per temere un ciclo di deflazione. Un periodo con un tasso di inflazione sotto lo 0 provoca infatti, a lungo andare, come facilmente intuibile, una diminuzione degli stipendi. A rimanere stabile, però, in questo contesto di generali riduzioni, sono i valori degli interessi sui debiti. Diventa così sempre più complesso rientrare, ad esempio, per un privato, di un mutuo, mentre, per l’intero sistema, del proprio debito pubblico. In un paese come l’Italia, che emette annualmente 450 miliardi di bond per finanziarsi, è sufficiente un tasso di inflazione ridotta, come quello attuale, per causare enormi conseguenze. Secondo le stime, infatti, proiettando l’attuale inflazione, crescita, interesse su BTP e BOT e surplus di bilancio fra vent’anni, si arriverebbe ad avere un rapporto fra debito e PIL pari al 148%; una situazione insostenibile. Rapporto che scenderebbe però al 110% (dato sempre preoccupante ma decisamente più controllato) se il tasso d’inflazione media rimanesse intorno all’1,2% (pari al valore italiano del 2013). In questo quadro bisogna anche considerare come una situazione di deflazione incida in maniera negativa anche sul denominatore di questo rapporto, ovvero il prodotto interno lordo. In un quadro di PIL reale (depurato delle variazioni dei prezzi dei beni prodotti) fermo, senza un aumento dei prezzi (o peggio ancora con una riduzione degli stessi) si avrà, infatti, una diminuzione conseguente del PIL nominale (ovvero misurato in moneta corrente) e un rapporto debito/PIL più elevato.

Il ruolo delle banche centrali
Bastano dunque queste brevi considerazioni per comprendere l’allarme generato dai dati diffusi dall’Eurostat. Come fare però per evitare il pericolo deflazione? Quali strumenti e quali riflessioni può mettere in campo la Banca centrale europea? Il principale mezzo con cui le banche centrali possono incidere sull’inflazione è la correzione dei tassi d’interesse con cui le stesse banche centrali prestano denaro agli altri istituti. Più basso è questo tasso più forte sarà l’incentivo a prendere in prestito denaro da parte delle altre banche e, in linea teorica, ad aumentare la circolazione di moneta. Non a caso la BCE ha tagliato il costo del denaro, nel 2013, fino ad uno storico 0,25% (dopo averlo già ridotto una prima volto ad un già minimo 0,5%) assicurando poi il mercato che il costo del denaro non sarebbe più salito per molto tempo a venire. Purtroppo però l’inflazione è scesa molto più rapidamente di quanto previsto dalla BCE, rendendo parzialmente inefficace il suo intervento. Non si attende comunque a breve un altro intervento della Banca centrale europea. Il pessimo dato di marzo è infatti dettato anche da situazioni contingentali come la Pasqua (che quest’anno cade di aprile e non a marzo come nel 2013) e una leggera ricaduta dei prezzi in Francia, successiva ai saldi. Si aspetta, inoltre, ad aprile una piccola ripresa dei prezzi dell’energia che incidono non poco sul dato generale. Il tasso di interesse, esclusa l’energia, sarebbe risultato a marzo pari al +0,8%, sempre deludente ma più in linea con le previsioni. La considerazione che dovrebbe semmai animare i pensieri della BCE riguarda gli effetti di rallentamento che questa bassa inflazione procura sul riequilibrio dell’Eurozona. In una realtà che adotta un sistema analogo a quelli a cambio fisso, il compito di stabilizzare i vari paesi spetterebbe infatti proprio ai prezzi e agli stipendi, che dovrebbero rallentare negli stati deboli e accelerare in quelli in ripresa. L’esatto opposto di quanto invece accade oggi in Europa. In Italia e Spagna il tasso di inflazione si è fermato a marzo rispettivamente allo 0,3% e allo 0,2%, mentre in Germania ha toccato lo 0,9%.

 

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