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Anche i capitali a volte ritornano

di Marco Perazzi

bceL’ultimo outlook rilasciato dal FMI ha sostanzialmente confermato gli scenari di fine 2013, riproponendo posizioni di consolidamento della crescita dell’economia statunitense (2,8% contro l’1,9% del 2013) ed una stabilizzazione di quella cinese, attorno al 7,5%; per l’Europa, incapace di sciogliere le contraddizioni interne, ed alla vigilia di una tornata elettorale che presumibilmente vedrà l’avanzata dei movimenti euro-scettici ed anti-Euro, lo scenario più ottimista non regala più di un punto e mezzo di crescita per il prossimo anno.
A fronte di tali previsioni, viene spontaneo chiedersi quali logiche guidino in questo momento i principali detentori di liquidità internazionali (Fondi pensione americani, hedge funds, fondi sovrani) che, volte alla diversificazione degli investimenti, non sembrano disdegnare l’allocazione in titoli di stato dei Paesi dell’Eurozona, i cui spread relativi si mantengono sui livelli minimi da tre anni a questa parte.
Il dibattito politico europeo, ed in particolare quello nazionale, si è avvitato oramai da anni su come risolvere gli squilibri interni, con un’attenzione particolare al tema della riduzione dei debiti pubblici e al contenimento della spesa.
Senza negare e neanche ridimensionare quelli che sono gli oggettivi problemi ancora irrisolti che bloccano la ripresa economica nell’Eurozona, ciò che manca al dibattito europeo è la componente che spieghi i movimenti finanziari internazionali.
Si tratta cioè di considerare che, nella prospettiva di un investitore globale, elementi di criticità ed opportunità di aree economiche circoscritte vengono inquadrati e valutati in un contesto molto più largo nel quale, necessariamente, forze e debolezze di singoli Stati o aree economiche si relativizzano. Nell’affrontare il tema stesso del disavanzo pubblico di uno Stato, d’altra parte, vi è implicita l’interconnessione tra quell’economia e quella di altri Paesi; per una visione più allargata, e comunque ancora parziale, è indispensabile considerare le dinamiche degli scambi commerciali quantomeno tra i tre principali mercati globali.

figura_1
grafico_2

I grafici 1 e 2 sono utili a supportare almeno due chiavi di lettura: l’andamento della bilancia dei pagamenti (e le relative strategie di rientro e ripagamento del debito per i Paesi in disavanzo commerciale); come l’economia interna è strutturata (tra investimenti e consumi).
Le potenze mondiali che hanno polarizzato l’attenzione nell’ultimo decennio, USA e Cina (molto meno “in concorrenza” tra loro di quanto comunemente si pensi) si sono caratterizzate per due paradigmi di crescita fondamentalmente opposti: la prima ha sostenuto la crescita con espansione del deficit a sostegno dei consumi interni; la seconda ha puntato sulle proprie esportazioni per finanziare massicci programmi di investimenti in conto capitale.
Va ora aggiunto che i grandi investitori sui mercati globali ragionano in un’ottica di lungo-lunghissimo termine (20-30 anni). In particolare, nell’acquisto di titoli di stato, essi guardano:

– Alla rilevanza di quell’economia nel contesto globale;
– All’affidabilità del governo nella gestione del debito;
– Alla maturità ed all’equilibrio dell’economia nazionale.

In quest’ottica è più facile che tale tipologia di investitore valuti quali scelte di investimento fare più in funzione di un criterio di strategicità più che di remuneratività. Ciò contribuisce a spiegare perché non vi sia una stretta correlazione tra entità del debito pubblico e tassi di rischio associati alle relative obbligazioni di stato.
Il dibattito politico interno statunitense ha come tema centrale, già da qualche anno, la riduzione del debito pubblico, i cui titoli vengono comunque collocati agevolmente sul mercato dal governo americano con bassi tassi di interesse. Nell’analisi degli investitori, evidentemente, pesano le seguenti considerazioni:

– Il secondo mandato dell’attuale Presidente, non ulteriormente rieleggibili, offre garanzie circa la volontà di fare scelte politiche non necessariamente paganti da un punto di vista elettorale;
– La tassazione molto bassa, consente margini di intervento circa il reperimento di risorse attraverso la leva fiscale;
– Sul bilancio federale dei prossimi anni diminuirà l’impatto della spesa militare, in virtù delle due guerre molto costose che gli USA hanno sostenuto negli ultimi anni e che sono giunte al termine.

Va inoltre tenuto conto che i bassi tassi di interesse di mercato e le stime sulle riserve di shale gas hanno, quali effetti, un basso costo del denaro ed un basso costo dell’energia, che stanno stimolando il fenomeno di reinshoring, ovvero di rientro di produzioni industriali precedentemente delocalizzate (offshored).
Tale fenomeno impatta, ed è destinato ad impattare, sul bilancio federale statunitense in termini di riduzione del debito, diminuendo le importazioni ed incrementando gli investimenti in attività produttive interne (con effetti, rispettivamente, su partite correnti e conto finanziario).
L’economia cinese, come detto, si caratterizza per un saldo positivo nella bilancia dei pagamenti, da oltre un decennio. Le dinamiche di crescita del colosso asiatico vanno lette però attraverso l’interpretazione delle figure 2 e 3: la Cina infatti non ha ancora trovato una discontinuità col modello di crescita basato sugli investimenti in capitale fisso.

grafico_3

Questi ultimi costituiscono, dal 2008, quasi il 50% del prodotto interno lordo nazionale; valore che, come reso evidente dal confronto con le altre principali economie mondiali – sia emergenti che mature – si configura fuori norma. La spesa in capitale fisso del governo cinese va inoltre commentata anche qualitativamente.
Gli investimenti finora effettuati consistono in infrastrutture, abitazioni e fabbriche, in assenza di un riequilibrio del PIL con la spesa interna dei consumatori, ciò fa sì che:

– l’enorme capacità di strade, ferrovie ed aeroporti resti largamente inutilizzata;
– le ultime stime immobiliari parlano di una cifra superiore ai 100 milioni di abitazioni sfitte, per la saturazione delle quali occorrerebbe un’ulteriore fase di urbanizzazione di metropoli già sovraffollate;
– gli impianti di produzione di acciaio, vetro, alluminio ed automobili non trovano sbocchi interni alla propria produzione anche in virtù di livelli di traffico ed inquinamento nelle aree metropolitane giunti già a livelli di guardia).

Allo scarso utilizzo di impianti, all’ingente quantità di invenduto immobiliare, all’eccesso produttivo in alcuni settori industriali, sono associati di conseguenza tassi di ritorno insoddisfacenti degli investimenti per essi realizzati. Non stupisce perciò la crescente preoccupazione degli investitori sul futuro dell’economia cinese che sta provocando una graduale uscita di capitali.
Evidenza di ciò si ha anche dall’andamento delle riserve ufficiali del Governo cinese, che si attestano oramai da quattro anni sui 3,3 miliardi di dollari statunitensi, nonostante i saldi commerciali dell’economia nazionale continuino a rimanere positivi.
Induce una lettura in tal senso anche l’andamento del mercato azionario cinese: dall’8 marzo 2009 l’indice della borsa di Shanghai ha perso infatti oltre il 40% (mentre il Dow Jones ed il Nasdaq di New york hanno rispettivamente guadagnato più del 50% e del 250%).
Un’inversione in atto nei flussi di capitali internazionali è d’altra parte legata anche alle strategie finanziarie delle stesse aziende di Stato cinesi nonché del fondo sovrano di proprietà del governo che, come l’attualità racconta, vedono l’intensificarsi di processi di acquisizione di aziende europee e di investimenti in paesi ricchi di materie prime (ad esempio i Paesi del centro-Africa).
Vi è dunque ragione di chiedersi se la luna di miele tra capitali e nuovi mercati, emergenti ed emersi, stia per chiudersi? Il punto non sta sicuramente qui. La logica che guida gli investimenti internazionali, più o meno razionale che sia, resterà sempre quella di individuare, su un orizzonte di 10-20 anni, le aree economiche ed i mercati che offrono stabilità politica, sostenibilità della crescita, remunerazione del capitale.
Per l’Europa, e l’Italia, ciò può tutt’al più non precludere l’aprirsi di qualche opportunità, senza risolvere tuttavia alcuno dei problemi aperti.
Quello che è il primo mercato mondiale (l’Eurozona) resta necessariamente una delle prime opzioni di investimento in termini strategici (per chi detiene quote rilevanti di liquidità da collocare nel quadro internazionale); tra il cogliere l’opportunità di un contesto che si sta facendo più favorevole, proseguendo sulla creazione di un’unità federale fiscale e monetaria, e l’abbandonarsi ad una frammentazione politica guidata da rigurgiti nazionalisti, sta il bivio di fronte al quale giocarsi la partita per la contesa dei capitali internazionali.

 

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