Nell’eurozona metà degli scoraggiati sono italiani
Sebbene dai mercati del lavoro arrivino i primi segnali di miglioramento, la disoccupazione resta ancora troppo elevata nell’area dell’euro. Il tasso di disoccupazione, sceso nell’ultimo trimestre del 2013 per la prima volta dal 2011, è rimasto stabile all’11,9% tra ottobre 2013 e febbraio 2014. Tuttavia, tale recente periodo di stabilità cela una flessione nel numero di disoccupati, che suggerisce che il tasso di disoccupazione abbia superato il suo punto massimo. E’ quanto spiega la Banca centrale europea nel bollettino di aprile.
Il tasso di disoccupazione strutturale, spiega ancora la Bce, è aumentato dall’inizio della crisi finanziaria, riducendo il contributo del lavoro alla crescita del prodotto potenziale. In diversi Paesi l’aumento della disoccupazione strutturale è legato alla crescita della disoccupazione di lungo periodo. Quanto più a lungo i disoccupati rimangono senza lavoro, tanto più si erodono le loro capacità e il capitale umano, e tanto meno favorevole essi saranno considerati da potenziali datori di lavoro. Inoltre, i disoccupati potrebbero scoraggiarsi e rinunciare alla ricerca di un posto di lavoro.
Per dimostrare quest’ultima ipotesi basta dare uno sguardo agli ultimi dati dell’Eurostat, secondo cui nel 2013 erano ben 9,3 milioni le persone nell’Ue a 28 Paesi, di età compresa tra i 15 ed i 74 anni, che, pur essendo disponibili a lavorare, non cercavano un’occupazione. Sono gli “scoraggiati”, che non hanno cercato un lavoro nelle ultime quattro settimane né hanno intenzione di farlo nelle prossime due. La fetta maggiore degli scoraggiati appartiene all’Italia, con tre milioni di unità: quasi un terzo del totale europeo. Subito alle spalle del nostro Paese troviamo la Spagna con 1,1 milioni di unità e la Gran Bretagna con 766 mila.
Riducendo il campo visivo alla sola eurozona, gli scoraggiati italiani rappresentano quasi la metà del totale, che in questo caso si attesta a 6,4 milioni di persone.
Su un totale di 216,4 milioni di lavoratori occupati (nell’Ue a 28 paesi), 43,7 milioni risultano con contratti part-time mentre altri 9,9 milioni sono lavoratori – i sottoccupati – che avrebbero voluto e potuto lavorare più ore, o lavoratori che svolgono mansioni non adatte ai loro titoli di studio.