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Tutte le difficoltà delle imprese italiane

di Mirko Spadoni

ImpreseLe imprese italiane sono vulnerabili finanziariamente. L’osservazione è del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, secondo cui “l’indebitamento elevato e la dipendenza dal credito bancario sono segnali di vulnerabilità finanziaria per le imprese”. Imprese, che in Italia – come rileva l’Istat nel suo Rapporto annuale 2014, La situazione del Paese – sono tra per la stragrande maggioranza (il 95%) micro-imprese e impiegano di media 3,9 addetti per impresa a fronte dei 6,6 della Ue.
Le ridotte dimensioni delle imprese “si riflettono – osserva l’Istat – anche nella limitata traiettoria tecnologica delle imprese stesse”. E così il nostro Paese è uno di quelli che in Ricerca e Sviluppo investe di meno nell’Unione europea (l’1,25% del Pil – dato del 2010), dove la media è più alta (2,1%), ed è ancora molto lontano dal raggiungimento dell’1,53% fissato dalla strategia Europa 2020. Tutti fattori che a modo loro, si legge nel rapporto dell’istituto di statistica, hanno contribuito – assieme “ad una prolungata stagnazione della produttività, che si protrae ormai dagli anni Duemila” – “alla mancata crescita dell’economia italiana”. Tutto questo si riflette inevitabilmente sull’occupazione, che dal 2008 al 2013, è diminuita di 984 mila unità, la maggior parte (-973 mila) uomini. Il tasso d’occupazione si è invece ridotto di quasi 3 punti percentuali, toccando quota 55,6% nell’ultimo anno e coinvolgendo “le imprese di tutti i settori dell’industria e dei servizi di mercato”. E’ quindi necessario invertire la rotta, trovando una soluzione. Già ma quale?
Per oltre il 71% delle imprese manifatturiere – e oltre il 76% di quelle dei servizi – la riduzione del cuneo fiscale a carico del datore di lavoro potrebbe “portare ad un aumento del numero di occupati”. “Soltanto attraverso una riduzione del cuneo fiscale – spiegò qualche settimana fa il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi – le aziende rimarranno competitive e ci sarà ancora una possibilità di attrarre investitori esteri”, che – nostro malgrado – rappresentano ancora una piccola porzione di chi decide di investire nel nostro Paese: nel 2011, le imprese a controllo estero in Italia erano circa 13.500 e occupavano quasi 1,2 milioni di addetti. Un risultato forse inevitabile se si tiene conto delle molte difficoltà che chi vuole fare impresa in Italia deve superare. Secondo uno studio della Banca mondiale (Doing Business 2014), i tempi richiesti per avviare un’impresa nel nostro Paese sono simili a quelli dei principali partner europei. I problemi semmai sono altri: le procedure per creare un’impresa sono ancora troppe (6 contro le 5 della media Ocse) e onerose, così come i tempi della giustizia civile (“la risoluzione delle dispute è più lunga (1.185 giorni), il doppio della media europea e più costosa che nei principali partner dell’Unione”, osserva l’Istat). In Italia, un imprenditore è inoltre chiamato ad effettuare 15 pagamenti l’anno, impiegando 269 ore di lavoro amministrativo e paga imposte sugli utili, contributi sociali, previdenziali e sui consumi quasi doppie rispetto alla media dei Paesi dell’area Osce: oltre il 65%.

 

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