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Il calcio non è uno sport, la polemica sì

di Giampiero Francesca

lionel_messi_argentinaIl vero sport nazionale, in questi giorni di mondiale, è la (sterile) polemica. Dalle convocazioni alla tattica, dai singoli giocatori fino alle scelte del fisioterapista, la discussione anima tutti gli strati della nostra società. Volendosi dunque accostare alla manifestazione brasiliana il primo obbligo morale, ancor di più dopo la prematura eliminazione della nazionale di Prandelli, è quello di evitare futili questioni. Allontanandosi quindi dalle baruffe di casa nostra vale la pena soffermassi su una più generale riflessione sulla gestione, da parte della FIFA e non solo, dell’intero impianto della competizione mondiale. Una premessa è però necessaria: il calcio non è uno sport, o almeno non lo è nel senso decoubertiniano del termine. Lontano dai campi polverosi di periferia, dalle serie (molto) minori, dalla pratica amatoriale il pallone perde infatti quasi tutte le caratteristiche proprie di uno sport. Il calcio, quello dei Cristiano Ronaldo e di Messi, ma anche quello di Dmitry Rybolovlev e della Qatar Foundation, di Visa e McDonald’s, è geopolitica, economia, finanza, business. Un giro d’affari e potere che ruota intorno ad un principio unificante: lo spettacolo. Le interessanti riflessioni proposte da Limes (con l’hashtag #mondialigeopolitici) hanno evidenziato alcuni aspetti centrali di questa competizione, così come fatto da Federico Buffa in quei racconti mondiali capaci di allargare lo sguardo del grande pubblico al di là dei semplici fatti di campo. Ma la centralità dello “spettacolo del pallone” è stata solo scalfita da queste analisi. Senza addentrarsi nelle complesse riflessioni di Mario Perniola sui “Miracoli e traumi della comunicazione” o sulla continua necessità della nostra contemporaneità di spettacolarizzare, è comunque necessario guardare allo show nel calcio come ad una componente necessaria di questo microuniverso; una componente in grado di concentrare e riassumere tutti gli interessi in gioco. E’ in questa prospettiva che sorgono le maggiori perplessità rispetto a quanto si sta vedendo in questi giorni in Brasile. Che spettacolo stanno mostrando questi mondiali? Che show ci si può attendere da squadre stanche, provate nel fisico e nello spirito da stagioni massacranti e da un clima impossibile? Quale appeal mediatico possono avere partite senza campioni in campo e una anche minima parvenza di divertimento (come si può scommettere sarà, ad esempio, l’ottavo di finale Costa Rica – Grecia)? E ancora, quale interesse possono avere sponsor come Coca Cola o McDonald’s, che fondano la loro forza anche su una più che riconoscibile brand identity, a legare il proprio nome ad immagini come quelle proposte da Suarez nella partita fra Uruguay e Italia?
Blatter, Platini, tutti coloro che, a vario titolo, influenzano il complesso mondo del calcio, dovrebbero, a tal proposito, rivolgere lo sguardo verso gli States, per capire davvero cosa vuol dire trasformare lo sport in spettacolo (per altro snaturando molto meno gli sport rispetto a quanto fatto in questi anni con il calcio). Sembrerà banale ma, ancora una volta, non sembra esserci modello migliore dell’NBA. La National Basketball Association, oggi non a caso diffusa in oltre 216 paesi, ha fatto del binomio show/sport uno dei suoi principali punti di forza. L’intero impianto di questa straordinaria macchina da soldi si basa infatti su alcuni principi volti a salvaguardare l’equilibrio e, di conseguenza, il divertimento del pubblico, ovunque esso sia (molto si potrebbe infatti dire sull’intelligibilità dello sport made in USA). Il sistema di redistribuzione delle risorse e dei giocatori, il salary cap, la presenza di un commissioner indipendente dalle singole franchigie (che ha il decisivo compito di garantire il funzionamento della macchina), permette all’NBA di toccare altissimi livelli di spettacolarità, e, al tempo stesso, enormi profitti. Una meccanismo perfetto che nessuno deve poter inceppare. Né è un esempio perfetto il recente caso di Donald Sterling, ex-propietario dei Los Angeles Clippers, squalificato a vita dall’NBA dopo la diffusione di alcune sue dichiarazioni razziste (non troppo diverse da quelle che, nel 2012, costarono otto turni di squalifica sempre a Luis Suarez). Che gli USA, patria per molti versi della nostra società contemporanea, abbiano capito prima e meglio come trasformare in profitto i miracoli e i traumi che così bramosamente ricerca l’opinione pubblica, non può certo stupire. Sorprende semmai che un tale modello non sia stato ancora imitato, visti i suoi incredibili risultati. Il rischio che si corre è quello di produrre un movimento calcistico sempre più legato a singole icone e sempre meno capace di fare sistema. Senza un vero spettacolo il mondo del pallone sarebbe costretto ad inseguire dei galacticos globttrotter, relegando a posizione di subalterno interesse tutto ciò che gli ruota intorno (un fenomeno già piuttosto visibile nella Serie A, nella Ligue 1 francese e nella Liga spagnola).

 

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