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Come paghiamo cara l’austerità

di Carlo Buttaroni

disoccupazione_lavoro_disuguaglianzeDue anni fa (proprio da queste colonne) iniziammo a denunciare le politiche del rigore evidenziandone gli effetti negativi sull’economia nazionale: prolungamento della fase recessiva, disoccupazione, povertà, aumento del debito, crescita delle disuguaglianze. Era l’epoca dei “professori”, dei “sacrifici necessari”, dell'”austerità espansiva”. In Italia, la nostra fu una voce a lungo quasi solitaria, mentre il mantra prevalente era quello dei due tempi: prima i sacrifici, poi la crescita. Il tutto sostenuto da previsioni economiche dei governi e degli organismi “ufficiali” che definire “bizzarre” è persino un eufemismo. Secondo queste “previsioni”, la ripresa, vista come la “luce in fondo al tunnel” avrebbe dovuto iniziare già da qualche tempo, rivelandosi invece un’illusione economica e uno strabismo politico culminato nel “pareggio di bilancio” in costituzione. Non una delle previsioni dei fautori del rigore si è realizzata: non la crescita del Pil, non la diminuzione del debito, non la ripresa dell’occupazione, mentre grandi masse di ricchezza sono passate dalle fasce medie e medio-basse a quelle più ricche.
Quello che si annunciava come il sogno di un nuovo eldorado si sta rivelando un disastro per l’Italia (e non solo), un incubo per le famiglie, in particolare quelle appartenenti al ceto medio e medio-basso, chiamate a pagare il prezzo più elevato alla crisi e alla cura dell’austerity messa a punto nei laboratori di Bruxelles.
La buona notizia è che quello che è stato, a lungo, un “dibattito proibito” sembra finalmente uscito dalla semi-clandestinità. Un dibattito, altrove, iniziato da tempo. A giugno 2012, il Financial Times pubblicava il manifesto di Paul Krugman e Richard Layard sul “buonsenso economico”, una critica durissima alla visione del rigore e dell’austerità. “Molti responsabili politici – scrivevano i due economisti – insistono sul fatto che la crisi è stata causata dalla gestione irresponsabile del debito pubblico. Con pochissime eccezioni, come la Grecia, questo è falso. Le condizioni per la crisi sono state create da un eccessivo indebitamento del settore privato […]. I disavanzi pubblici di grandi dimensioni che vediamo oggi sono una conseguenza della crisi, non la sua causa. […] Quando le bolle immobiliari su entrambi i lati dell’Atlantico sono scoppiate, molte parti del settore privato hanno tagliato la spesa nel tentativo di ripagare i debiti contratti nel passato. Questa è stata una risposta razionale da parte degli individui, ma si è dimostrata collettivamente autolesionista. Il risultato del crollo della spesa è stato una depressione economica che ha peggiorato il debito pubblico. […] La politica pubblica dovrebbe agire come una forza stabilizzatrice, nel tentativo di sostenere la spesa. Per lo meno, non dovremmo peggiorare le cose tramite grandi tagli della spesa pubblica o grandi aumenti delle aliquote fiscali sulle persone comuni. Purtroppo, questo è esattamente ciò che molti governi stanno facendo […] concentrandosi sui deficit pubblici, che sono principalmente il risultato di una crisi indotta dal crollo delle entrate, e sostenendo che il settore pubblico dovrebbe cercare di ridurre i suoi debiti in tandem con il settore privato. Come risultato, invece di giocare un ruolo di stabilizzazione, la politica fiscale ha finito per rafforzare gli effetti frenanti dei tagli alla spesa del settore privato. […]L’esperienza passata non contiene nessun caso in cui i tagli di bilancio hanno effettivamente generato un aumento dell’attività economica.”
Un anno dopo, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, in una lunga intervista al New York Times, quasi irrideva alle politiche del rigore adottate in Europa: “Una delle cose interessanti di cui non parliamo abbastanza è il contrasto tra quanto avvenuto negli Stati Uniti e quanto avvenuto in molti altri paesi in via di sviluppo, in Europa in particolare”.
Secondo Obama, “i Paesi che hanno seguito le prescrizioni che i Repubblicani della Camera stanno chiedendo ora” (cioè il rigore del bilancio pubblico per far crescere la prosperità, ndr) “non solo stanno ben più indietro di noi in termini di crescita, ma in molti casi i loro debiti e deficit sono aumentati.” E rivendicava le politiche economiche della sua amministrazione: “noi sappiamo cosa è necessario per far crescere la nostra economia ora e subito. Se le famiglie della classe media stanno meglio, se crescono i prezzi delle case, se i giovani avviano famiglie e se ci sono lavori a salari buoni, ecco cosa abbatte i deficit nel modo più veloce possibile.”
Negli USA, la risposta politica alla crisi è stata un aumento della spesa pubblica, accompagnata da massicce immissioni di liquidità da parte della Fed (la banca centrale statunitense), col risultato che oggi gli americani contabilizzano quasi otto punti in più di Pil reale rispetto all’inizio al 2007 e i disoccupati sono scesi ai livelli pre-crisi.
Molti studiosi che in passato avevano sostenuto la dottrina dell'”austerità espansiva” sono giunti a ricredersi. La più clamorosa conversione è stata quella di Olivier Blanchard, capo economista del FMI, che nel World Economic Outlook due anni fa, ammise candidamente che gli errori scaturivano da una sottostima degli effetti negativi dell’austerità.
L’evidenza della nocività delle teorie rigoriste, incentrate sulla rincorsa al pareggio di bilancio attraverso massicci tagli alla spesa pubblica, sembra però non bastare. Nonostante gli organismi internazionali abbiano rivisto al ribasso le stime per il 2014 e il 2015, e per l’Italia si prospetti per il 2014 un cupo “orizzonte zero” (zero crescita del Pil, zero crescita dell’occupazione) si continua a pensare – e in termini peraltro piuttosto vaghi – di un’austerità flessibile e di una politica dei “piccoli passi”, quando occorrono interventi ben più incisivi, immediati e robusti per far ripartire l’Italia, viste le condizioni in cui versa l’economia del Belpaese. Tra la crescita del Pil dello 0,8% prevista dal governo per il 2014 e lo 0,2% stimato da Bankitalia, non c’è spazio per politiche economiche dai tempi lunghi, nel momento in cui l'”orizzonte zero” del Paese è a pochi mesi di distanza e lo spazio fino all’auspicata ripresa è in una terra di mezzo con altri disoccupati, altre imprese che chiudono, altri negozi che abbassano la serranda per l’ultima volta e milioni di famiglie stremate che hanno scoperto il fondo scala della piramide sociale.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 21 luglio 2014. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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