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L’Unità: lo specchio del Paese in crisi

di Carlo Buttaroni

UnitàIn tutte le economie di mercato le imprese sono soggette alle leggi della domanda e dell’offerta. Chiudono e aprono, prosperano o falliscono, in base ai gusti dei consumatori, alla competitività del prodotto, alla concorrenza. A questi criteri, ineludibili, non si sottraggono le imprese editoriali come l’Unità stessa, perché i “mercati” non rispondono ai sentimenti, nemmeno quelli più nobili. E non conta quanta storia ci sia alle spalle, se le vendite calano e non c’è equilibrio fra entrate e uscite. Piaccia o no, questa è la ruvida legge dei mercati. Talmente ruvida che, in tutte le economie occidentali, un complesso sistema di norme ne disciplina il funzionamento. Le norme anti-trust, per esempio, tutelano la concorrenza, impedendo che le imprese pregiudichino la regolare competizione economica con abusi di posizione dominante e condizioni di monopolio. Ma c’è di più: le politiche pubbliche dei Paesi a economia di mercato si sono assunte il compito di contenerne gli eccessi, prevenirne gli squilibri e orientarne lo sviluppo, operando direttamente come attori economici e occupandosi di far crescere quei settori strategici sui quali il privato non nutriva alcun interesse. È quello che, ad esempio, è successo in molti paesi europei dal dopoguerra in poi, nel welfare, nei trasporti, nella scuola, nelle comunicazioni, nella cultura. In questi casi, la mano pubblica non ha occupato soltanto gli spazi lasciati vuoti dall’imprenditoria privata, ma ha dato anche una spinta decisiva per far crescere la ricchezza e il benessere, secondo criteri di qualità e uguaglianza.
Tornando all’Unità, quando un giornale con una storia così importante arriva alla soglia del fallimento, è un segnale preoccupante. E anche chi non ne condivide la linea editoriale e politica, non può evitare di riflettere sulla ferita profonda che si apre nel mondo dell’informazione. Un “sistema” che, come i mercati, può prosperare solo se c’è pluralismo e concorrenza e ha bisogno di norme che ne tutelino il corretto sviluppo. Questo, naturalmente, non significa che la crisi dell’Unità deve trovare una soluzione “pubblica”, ma sarebbe miope non contestualizzarla in un orizzonte che va oltre i conti economici della singola impresa. Varrebbe perlomeno la pena chiedersi perché il Lussemburgo ha tassi di diffusione di copie di quotidiani quattro volte superiori all’Italia, il Regno Unito il doppio e la Germania una volta e mezza. E, ancora, perché il nostro, che sarà pure un paese di poeti, di artisti, eroi, santi e pensatori, è all’ultimo posto in Europa per quote di quotidiani e riviste scaricate da internet. Siamo, quindi, di fronte a un problema serio, perché la pluralità dell’informazione e il tasso di lettura dei quotidiani non sono elementi secondari per la crescita di un paese, sia dal punto di vista economico che democratico. D’altronde, il tasso di democraticità di un paese si misura anche attraverso la pluralità delle voci che l’attraversano. E non è un caso se l’Economist, nel suo Democracy Index, colloca l’Italia al 31° posto tra le democrazie imperfette, dopo Norvegia, Islanda e Danimarca (rispettivamente al 1°, 2° e 3° posto), Paesi Bassi e Lussemburgo (10° e 11°), Germania (14°), Regno Unito e Stati Uniti (18° e 19°), Costa Rica (20°), Spagna e Francia (25° e 29°).
La crisi dell’Unità è lo specchio della crisi del paese. Una crisi che negli indici economici ha un’evidenza acuta e drammatica. E il quotidiano, oggi, è anche il simbolo del precipitato di un settore strategico come l’informazione, senza la quale, al netto di tutte le riforme possibili e immaginabili, nessuna democrazia può dirsi tale. Il campo di battaglia dell’Unità non ha confini politici a “sinistra” o a “destra”, nel momento in cui il calo dei lettori e delle vendite riguarda, più o meno, tutte le testate e la crescita dell’informazione online risulta troppo debole per compensare il calo delle nelle edicole.
La crisi dell’Unità è lo specchio della crisi del Paese. Una crisi che negli indici economici ha un’evidenza acuta e drammatica. E il quotidiano, oggi, è anche il simbolo del precipitato di un settore strategico come l’informazione, senza la quale, al netto di tutte le riforme possibili e immaginabili, nessuna democrazia può dirsi tale. Il campo di battaglia dell’Unità non ha confini politici a “sinistra” o a “destra”, nel momento in cui il calo dei lettori e delle vendite riguarda, più o meno, tutte le testate e la crescita dell’informazione online risulta troppo debole per compensare il calo delle vendite nelle edicole.
La crisi dell’Unità, quindi, va oltre L’Unità. È il riflesso di una sfida che riguarda tutto il mondo dell’informazione. Una sfida che l’Italia sta perdendo e non per colpa della “tecnologia” pervadente, visto che altrove le cose vanno diversamente. In tutto il mondo occidentale, la quantità dell’informazione disponibile è cresciuta enormemente, così come la velocità di accesso ai contenuti. Se per un verso internet ha reso enormemente meno costoso le pubblicazioni, dall’altro ha trasferito la funzione di filtro qualitativo, che nell’epoca analogica era affidata alle grandi centrali del sapere (editori, università, enti e istituzioni), ai singoli utenti. Tutto questo arricchisce le possibilità di ciascuno di accedere direttamente alle fonti, dà responsabilità al lettore, apre alla cultura alla molteplicità, ma inevitabilmente disorienta e rende più difficile far ritrovare gli individui su un terreno culturale comune.
Ecco perché nei paesi a più alto tasso di democrazia, la carta stampata, pur conoscendo una certa crisi, continua a vivere, contraddicendo tutte le previsioni che ne decretavano la fine imminente. Una progressiva integrazione, quindi, e non una veloce e inevitabile sostituzione. Questo perché il giornale stampato resta ancora uno strumento fondamentale per la libera circolazione delle idee e per un’informazione capace di sedimentarsi su orizzonti che riflettono la profondità delle opinioni più che la velocità di diffusione. La società ha assunto entusiasticamente la rete, ne ha sperimentato il valore d’uso, trovandoci libertà e ricchezza d’idee.
Ma nelle democrazie occidentali si sente forte la necessità di compensarne i limiti. E se, per un verso, quella dei giornali stampati non può più essere la posizione di chi ha l’autorità culturale per definire esclusivamente la qualità dell’informazione, dall’altro, il nuovo ruolo al quale sono chiamati è quello di approfondimento critico, di analisi, di condivisione su terreni che continuano a essere patrimonio comune. E’ da questo nuovo equilibrio che può scaturire un rinnovamento dell’ecosistema dell’informazione, il cui motore e senso, ancor più che nella tecnologia, è nelle persone che colgono l’occasione offerta dalla tecnologia per ottenere livelli più alti di conoscenze e informazioni. Se la crisi dell’Unità non s’inserisce in questo contesto è difficile capirne la gravità. Si perde un pezzo di storia, ma, ancor più, si spegne una voce in un paese che ambisce a guardare alla pari le democrazie e le economie più avanzate.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 28 luglio 2014. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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