Tra i tagli alla spesa e le inefficienze
Con il Pil che cala per due trimestri consecutivi, i consumi che non decollano e la disoccupazione sempre molto alta, le riforme istituzionali suonano talvolta come qualcosa di non particolarmente urgente. Che poi è la retorica utilizzata dalle forze di opposizione per stigmatizzare la volontà del governo di stravolgere l’assetto parlamentare. Ma come stanno davvero le cose? In un’ottica di tagli alla spesa, la nuova composizione del Senato rientra, sulla carta, nell’ambito della spending review. Il conto è facile: i senatori saranno cento anziché gli attuali 315 e non saranno più eletti dai cittadini. Novantacinque esponenti, di cui 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, verranno eletti con sistema proporzionale dai Consigli regionali, secondo una ripartizione dei seggi che terrà conto della popolazione di ciascuna Regione. I cinque che avanzano saranno di nomina presidenziale, ma non a vita. Saranno in carica sette anni, come tutti gli altri. Soprattutto non riceveranno indennità. E non è cosa di poco conto, perché ciò varrà un risparmio per le casse dello Stato circa 500 milioni di euro.
Spending review
Nel piano del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, viene individuata la necessità di tragliare le partecipate, i cui effetti potrebbero ripinguare le casse fino a tre miliardi di euro. L’idea a tale proposito è portare da ottomila a mille in tre anni le società partecipate dagli enti locali. Gli sprechi della pubblica amministrazione vengono quantificati in circa 1,2 miliardi. Il piano prende poi di mira, oltre alle società partecipate, anche i Cda e gli stipendi dei manager nonché gli eventuali esuberi.
La crescita non è di casa
“L’incertezza generale che la mancanza di riforme strutturali produce è un fattore molto potente che scoraggia gli investimenti”. Il presidente della Bce, Mario Draghi, si è espresso in questo modo sullo stato dell’economia italiana, chiedendo più coraggio al governo nella realizzazione di riforme strutturali. Liberalizzazioni, burocrazia e giustizia i punti che Draghi inidica come cruciali.
“Tra il 1996 e il 2013 – è l’analisi dell’Ufficio Studi Confcommercio contenuta nel rapporto Fiscalità e crescita economica – l’Italia, tra i 28 Paesi dell’Unione europea e le dieci principali economie Ocse, è il Paese che ha registrato le più basse dinamiche di crescita del Pil pro capite con appena il +2,1%, ben lontano dai principali competitors europei, come Francia (+18%), Spagna (+24,5%), Germania (+25,4%) e Regno Unito (+31,9%), e a una distanza incolmabile rispetto ai Paesi dell’Est e del Nord Europa cresciuti a tassi che vanno dal +47,8% dell’Ungheria fino al +168% della Lituania; un divario che emerge sia nel periodo pre-crisi (1996-2007), con una crescita inferiore di 10 punti alla media europea, sia nel periodo successivo (2008-2013), nel quale la riduzione del Pil pro capite è stata superiore a quella degli altri Paesi”. E, sottolinea la Confcommercio, le cause sono le solite: eccessiva pressione fiscale, inefficienze della P.A. e una struttura dei costi sfavorevole all’attività di impresa.