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La minaccia dello Stato Islamico

di Mirko Spadoni

Lo Stato Islamico ha fatto molte cose ultimamente. Alcune puramente ‘estetiche’: si è dato un nuovo nome, abbandonando la vecchia denominazione di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, e ha proclamato la nascita di un sedicente califfato. Altre sono state invece importanti vittorie militari (la conquista di Mosul, ad esempio), mentre alcune “costituiscono gravi violazioni dei diritti umani e della legge internazionale, che potrebbero costituire crimini di guerra contro l’umanità”, come denunciato mercoledì in una nota da Adama Dieng e Jennifer Welsh, rispettivamente consiglieri speciali del segretario generale Onu Ban Ki-moon per la Prevenzione del genocidio e la Responsabilità di protezione. Evidente il riferimento all’uccisione di circa 500 persone, membri della minoranza religiosa yazida.
Gli yazidi uccisi sono però soltanto le ultime vittime di un gruppo, quello guidato da Abu Bakr al Baghdadi, che secondo alcuni osservatori rappresenta addirittura “la più grande minaccia” per al Qaeda (Kurt Eichenwald su Newsweek), la quale “potrebbe essere soppiantata come organizzazione leader jihadista” (Barak Mendelsohn su Foreign Affairs).
Al di là delle dinamiche interne al mondo jihadista (al Qaeda e l’IS sono da tempo gruppi rivali) i miliziani di al Baghdadi stanno facendo parlare di sé soprattutto per l’efferatezza delle loro azioni: molti sono stati i soldati iracheni uccisi perché sciiti, così come sono stati diverse centinaia i civili uccisi perché contrari a convertirsi al sunnismo.
Il National Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism dell’Università del Maryland gli ha attribuito ben 603 attacchi avvenuti in Iraq solo nel 2013, ma l’IS nel corso degli ultimi mesi ha accresciuto di molto la propria forza. Come? Approfittando della profonda instabilità che coinvolge tutto il Medio Oriente. Ad esempio la porosità dei confini iracheno-siriani – complice anche l’incapacità dell’esercito di Baghdad di controllare le frontiere – ha permesso ai militanti del’IS di fare la spola tra i due Paesi, dove combattono due nemici differenti (il presidente Bashar al Assad da una parte e il governo iracheno dall’altra) per perseguire un unico scopo: la creazione di un califfato per poi puntare – ma sarebbe solo retorica, secondo alcuni – alla conquista anche di Roma.
Al Baghdadi, inserito dagli Stati Uniti nella lista dei terroristi più temibili il 4 ottobre del 2011 e su cui pende una taglia di 10 milioni di dollari e che il Time ha definito “l’uomo più pericoloso del mondo”, è così a capo di un gruppo con obiettivi e una forza economica non indifferente. L’IS controlla infatti buona parte del petrolio iracheno e “più del 60% del petrolio siriano”, secondo il Chatham House di Londra, e che una volta venduto sul mercato nero permette all’IS di incassare cifre esorbitanti: uno o due milioni o addirittura – secondo il think tank di Dubai, INEGMA – tre milioni di dollari al giorno. Soldi necessari per finanziare un gruppo composto da un gran numero di jihadisti.
Secondo Charles Lister del Brooking Doha Center, a giugno lo Stato Islamico poteva contare su circa 8.000 combattenti in Iraq (per il New York Times, i miliziani dell’allora ISIS erano circa 5.000-6.000 a cui andavano aggiunti circa 4.000 fondamentalisti dei gruppi sunniti alleati).
Non è però detto che nel frattempo le file dell’IS si siano ingrossate – e possano continuarlo a farlo – magari ‘arruolando’ aspiranti jihadisti provenienti anche dall’Europa. A proposito: secondo un recente studio dell’ISPI (Il jihadismo autoctono in Italia), nel nostro Paese sarebbero presenti “una quarantina/cinquantina” di soggetti “attivamente coinvolti in questa nuova scena autoctona”. Quella jihadista.

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