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Come si evolve la situazione in Iraq

di Mirko Spadoni

L’Italia ha deciso da che parte stare. Non che ci fossero grandi dubbi in merito. Il parere dei deputati delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato favorevole all’invio di armi – “automatiche leggere”, come spiegato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti – alle milizie curde peshmerga, che in questi giorni stanno contrastando l’avanzata dello Stato islamico in Iraq, ha semmai formalizzato la posizione del nostro Paese. Posizione in linea con quella ribadita solo qualche ora prima del voto dal premier Matteo Renzi: “Vinceremo insieme la battaglia contro il terrorismo”, ha detto al governatore curdo Massoud Barzani. “L’Europa – ha proseguito il presidente del Consiglio durante la sua visita di mercoledì a Baghdad – deve essere in Iraq, altrimenti non è Europa”. Quindi al fianco degli iracheni e anche degli Stati Uniti.
Ed è proprio da Washington che è arrivato l’invito del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ai “governi e le popolazioni del Medio Oriente a compiere uno sforzo comune per estirpare il cancro dello Stato islamico ed evitare che si propaghi”. “Il mondo intero è sconvolto – ha proseguito l’inquilino della Casa Bianca – per l’omicidio brutale di James Foley”, il giornalista statunitense rapito in Siria nel novembre del 2012 e decapitato dallo Stato islamico martedì. Foley potrebbe però non essere l’unico: nel video in cui mostrano l’esecuzione del prigioniero, lo Stato islamico ha minacciato di giustiziare un altro dei suoi ostaggi (Steven Sotloff, un giornalista rapito nel 2013) qualora i raid aerei americani non cessassero.
“Rapire europei (solo lo Stato islamico avrebbe fatto oltre 20 ostaggi, secondo il Guardian – ndr) è diventata una delle principali fonti di reddito per al Qaida e le organizzazioni affiliate, che negli ultimi anni – secondo quanto scrive il New York Times – hanno accumulato 175 milioni di dollari in riscatti”. Sarebbe infatti una pratica diffusa soprattutto tra gli Stati europei pagare i rapitori per ottenere la liberazione di un ostaggio. L’articolo del New York Times cita i casi di tre cittadini spagnoli e quattro francesi, che nell’ultimo anno sarebbero stati liberati dietro il pagamento di un riscatto. I gruppi terroristici riescono così ad incrementare i propri fondi, parte dei quali proviene dai Paesi del Golfo persico. “Una cosa come questa – ha osservato mercoledì il ministro tedesco per la Cooperazione e lo Sviluppo, Gerd Mueller, commentando l’uccisione di James Foley – non arriva mai dal nulla. Chi finanzia questi soldati? Suggerimento: il Qatar”.
Secondo un recente studio del Brooking Institution (Playing with Fire: Why Private Gulf Financing for Syria’s Extremist Rebels Risk Igniting Sectarian Conflict at Home) le attività delle centinaia di fondamentalisti islamici, che in Siria combattono il presidente Bashar al Assad, sono in parte finanziate da denaro proveniente dai Paesi del Golfo persico. Un flusso a volte ingente e che – nonostante le norme adottate da Kuwait, Arabia Saudita e Qatar volte a contrastare il fenomeno – prosegue comunque. Spingendo uno di questi Paesi (l’Arabia Saudita) ha fare un passo in più rispetto agli altri. Ryad ha messo a disposizione del centro anti-terrorismo delle Nazioni Unite (UNCCT) ben 100 milioni di dollari. Soldi consegnati nel corso di una cerimonia mercoledì scorso a New York alla presenza del segretario dell’ONU, Ban Ki-Moon, e che si aggiungono ai 500 milioni stanziati a luglio sempre dai sauditi – e sempre consegnati all’ONU – per aiutare gli iracheni in fuga dal Paese. L’Arabia Saudita sembra quindi condividere la posizione del presidente statunitense Obama: “Nel XXI secolo – ha ribadito mercoledì – non c’è posto per lo Stato islamico”.

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La minaccia dello Stato Islamico

 

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