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La forza economica dello Stato islamico

di Mirko Spadoni

BagIl Jihad ha i suoi costi. Questo non rappresenta tuttavia un problema per lo Stato islamico, che ad oggi è il gruppo terrorista più ricco al mondo. Oltre a controllare un territorio di circa 35.000 chilometri quadri dove vivono quasi 6 milioni di persone, l’IS può fare affidamento sulla propria forza economica stimata attorno ai due miliardi di dollari, stando a quanto riferito da alcuni analisti dell’amministrazione statunitense citati dal Wall Street Journal. Fondi neanche lontanamente paragonabili a quelli dei Talebani (560 milioni di dollari), dei libanesi di Hezbollah (500 milioni), delle FARC (350 milioni) o i 100 milioni di al Shabaab (la branchia somala di al Qaeda, in sostanza) e i 70 milioni di dollari di Hamas.
Fondi cresciuti rapidamente nell’ultimo periodo e riconducibili alle diverse fonti di guadagno legali (le donazioni provenienti dai Paesi del Golfo Persico) e illegali (rapine, estorsioni, contrabbando di oggetti d’antiquariato e di reperti archeologici). “I soldi che arrivano dall’esterno impallidiscono di fronte alle altre attività di autofinanziamento”, ha tuttavia precisato al Wall Street Journal un funzionario del Dipartimento di Stato americano.
Lo Stato islamico affianca quindi la guerra santa ad attività criminali. Una tendenza che non è tuttavia nuova nella galassia jihadista. “Il primo, vero distaccamento dalla missione iniziale (il jihad, ndr) – spiegava in un’intervista a T-Mag Arturo Varvelli, ricercatore ISPI (Istituto politica internazionale) – l’abbiamo visto con al Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM). Per la prima volta, al Qaeda ha portato avanti dei tentativi di accordo con le comunità locali e con trafficanti di ogni tipo, di droga e di esseri umani”.
La differenza semmai è un’altra: l’IS è entrato in possesso di diversi pozzi di petrolio e gas naturale – otto dei quali solo in Siria a Raqqa e Deir Ezzor – con una produzione giornaliera compresa tra i 30.000 e i 70.000 barili e che una volta venduti sul mercato nero gli permettono di incassare cifre esorbitanti: uno o due milioni o addirittura – secondo il think tank di Dubai, INEGMA – tre milioni di dollari al giorno. Una stima attendibile: lo Stato islamico controlla circa il 60% del petrolio siriano, secondo il Chatman House di Londra. I barili non restano però nelle mani dei jihadisti, “questi – osserva Il Sole 24 Ore – vengono venduti, quando si tratta del petrolio meno pregiato, a 26-35 dollari al barile”. Inondando il mercato nero. Da quando lo Stato islamico ha preso parte alla guerra civile siriana, Ankara sostiene di aver registrato un incremento del 300% dei sequestri di barili illegali.
Soldi tuttavia fondamentali per permettere all’IS di mantenere i tanti miliziani che può contare tra le sue fila: circa 50.000 in Siria (6.000 dei quali reclutati solo nell’ultimo mese), stando alle stime più recenti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, e ai quali si devono aggiungere circa 30.000 jihadisti presenti, secondo Al Jazeera, in Iraq.

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