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Quando le riforme non sono rinviabili

di Fabio Germani

matteo_renziDi norma i mercati apprezzano le riforme, soprattutto laddove sono ritenute fondamentali e necessarie. Soprattutto quando a richiederle è la Bce. Soprattutto quando l’Ue viene da un lungo periodo – fatte le dovute eccezioni – di stagnazione economica. Casi di gratificazione in questo senso sono rappresentati dalla Spagna, dal Portogallo e dalla Grecia (paesi costretti ad alternare rigorismo e politiche espansive).
“Sulle riforme non mollo di mezzo centimetro”, ha tuonato il premier Matteo Renzi parlando domenica 7 settembre alla festa dell’Unità di Bologna. Le cose in ballo sono parecchie: la riforma del mercato del lavoro (con ogni probabilità, anzi certamente, la più importante), la riforma della Pubblica amministrazione e quella della giustizia, le modifiche costituzionali, fisco e spending review. Cambiamenti che fanno arrabbiare talune categorie e talune altre, che aizzano i sindacati, che non sempre piacciono ai cittadini. Cambiamenti che però servono come il pane.

Riforme ed elezioni
Le riforme hanno un peso. Diversi pesi, a dire il vero. Economici ed elettorali su tutti. Nel primo caso perché quasi mai le riforme sono a impatto zero. Nel secondo perché a quel punto quasi mai premiano chi le ha promosse. Tra il 1998 e il 2005 l’Agenda 2010 di Schröder ebbe delle ripercussioni enormi (molte delle quali positive, a giudicare l’andamento della Germania negli anni della crisi) sulla società e sul mercato del lavoro (si pensi allo spostamento della contrattazione nazionale a quella aziendale o del singolo lavoratore), ma anche sui successivi esiti elettorali. La riduzione della spesa sociale, per dirne una della tante, di fatto spianò la strada ad Angela Merkel, ma è innegabile che quella stagione di grandi riforme contribuì, e non poco, a mettere al riparo la Germania dall’attuale contesto socioeconomico.

Il ritardo dell’Italia
I recenti dati macroeconomici della Germania, che hanno registrato una lieve flessione del Prodotto interno lordo, hanno spinto l’istituzione di Francoforte a richiedere una volta di più riforme strutturali urgenti per promuovere investimenti privati e rilanciare l’occupazione. L’ipotesi che l’economia trainante non traini più di tanto l’Unione spaventa le istituzioni europee, anche se la produzione industriale di Berlino è cresciuta a luglio oltre le aspettative (+1,9%).
Dunque diventa di cruciale importanza l’individuazione delle priorità. Perché una riforma chiama in causa l’altra e perché le questioni lasciate a metà non risolvono nulla. Prima della pausa estiva, per diverse settimane, la riforma del Senato è stata al centro del dibattito pubblico. Ai tempi del governo Letta, l’allora ministro Gaetano Quagliariello, quantificò le riforme dello Stato in due punti di Pil. Ad aprile del 2012, incontrando il vicepremier cinese, l’ex presidente del Consiglio Mario Monti osservò come gli investimenti esteri siano l’indicatore delle riforme, che “per la crescita valgono quanto lo spread”. Il problema è che per troppi anni le riforme – quelle “compiute” e quelle “interrotte” – sono state un punto interrogativo.

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