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Basterà tagliare il cuneo fiscale?

di Fabio Germani

lavoro_impresePer Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, la riforma del mercato del lavoro del governo Renzi, il Jobs Act, va nella giusta direzione, ma invita l’esecutivo ad adottare “misure per abbassare le aliquote fiscali marginali o per ridurre il cuneo fiscale, che scoraggia gli investimenti in forza lavoro e capitale”. Per poi aggiungere: “Nonostante gli sforzi recenti, il cuneo fiscale in Italia rimane ben al di sopra della media Ocse”.
Quanto afferma Lagarde corrisponde al vero, tuttavia il cuneo fiscale in Italia non è più alto che in altri paesi. Basta prendere in esame proprio gli ultimi dati Ocse per avere il quadro della situazione: in Italia il 47,8% di uno stipendio è destinato a imposte e contributi. Nel corso del 2013 il cuneo fiscale sugli stipendi dei paesi dell’area Ocse è cresciuto dello 0,2%, al 35,9%. Ma prima dell’Italia, che è sesta in classifica, si collocano Belgio (55,8%), Germania (49,3%), Austria (49,1%), Ungheria (49%) e Francia (48,9%). Sul podio, insomma, si piazzano due tra i paesi con il tasso di disoccupazione tra i più bassi in Europa, rispettivamente al 4,9% (Germania) e al 5,1% (Austria); dati Eurostat, ottobre 2014.
Tutto deve ruotare attorno al cuneo fiscale, quindi? Probabilmente no, come insegnano le esperienze tedesca e austriaca. Il cuneo fiscale rappresenta la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro (il costo del lavoro, appunto) e la retribuzione netta del lavoratore e in Italia, effettivamente, è abbastanza alto. Con riferimento all’anno 2011, l’Istat lo attesta al 46,3% di cui i contributi sociali dei datori di lavoro ammontano al 25,6% e il restante è a carico dei lavoratori sotto forma di imposte e contributi.
Per quanto riguarda il carico tributario e contributivo dei lavoratori (il periodo considerato è ancora il 2011) il costo medio del lavoro dipendente, al lordo delle imposte e dei contributi sociali (destinati a pensioni, assistenza medica…), è di 31.049 euro all’anno. Il lavoratore, sotto forma di retribuzione netta, ne percepisce poco più della metà (pari al 53,7%), per un importo medio di 16.666 euro. Secondo gli ultimi dati Eurostat, con riferimento all’anno 2012, un’ora di lavoro, in Italia, costa alle aziende 28 euro quando la media Ue è di 24,2 euro.
Abbattere il cuneo fiscale, come viene richiesto spesso, equivale a ridurre la pressione fiscale, quindi rilanciare la domanda interna, rafforzare il potere d’acquisto e crescere in termini di competitività. Nello specifico, poi, diminuire i contributi a carico dei datori di lavoro – ed è su questo versante che il governo si è mosso con la legge di Stabilità (agendo, in particolare, su sgravi Irap e decontribuzione sulle assunzioni), oltre che modificare le regole del mercato del lavoro (si pensi all’Articolo 18, tramite il Jobs Act) – sarebbe in aggiunta uno stimolo alla creazione di nuova occupazione.
Ma tutto ciò è sufficiente per rilanciare il mercato del lavoro e renderlo più stabile? Tornando ai casi di Austria e Germania qualche dubbio è giustificato. In questi due paesi si guarda molto al ciclo produttivo e il costo del lavoro risulta più basso nel rapporto con la produttività per ora lavorata (e in più, da noi, si è assistito dall’inizio della crisi ad oggi ad un drastico calo delle ore lavorate).
Questo non vuol dire, tuttavia, che il modello di Austria e Germania sia da considerarsi il migliore possibile. Nonostante un tasso di disoccupazione ai minimi livelli, non mancano punti di debolezza in entrambi i casi. Su tutti: tipologie di impiego sottopagate (in particolare i mini-jobs che assorbono tante persone), uso frequente di contratti a termine e differenze salariali di genere.

(articolo pubblicato su Tgcom24 il 23 dicembre 2014)

 

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