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Il valore del capitale umano in Italia

di Mirko Spadoni

lavoro_giovani_disoccupazioneL’avvertimento è del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: le imprese devono migliorare la loro capacità d’innovazione. Il motivo? L’innovazione contribuisce alla creazione di nuovi posti di lavoro, ha spiegato Visco. Secondo cui, per scongiurare una disoccupazione di massa, è altrettanto fondamentale investire nel capitale umano.
Investire nel capitale umano – ovvero l’insieme delle conoscenze, delle competenze, delle abilità e delle altre caratteristiche individuali che consentono la creazione del benessere personale, sociale ed economico – permetterebbe all’economia italiana e ai suoi lavoratori di sfruttare al meglio i vantaggi delle nuove tecnologie e di restare competitivi, secondo Visco. I cui timori possono essere comprensibili.
Ad oggi, infatti, il capitale umano presente in Italia è in ritardo rispetto ai principali Paesi concorrenti. Nel 2013, ad esempio, soltanto il 58% della popolazione italiana nella fascia di età 25-64 anni aveva concluso un ciclo di scuola secondaria superiore contro il 77% della media Ocse. Mentre il 70% degli adulti italiani non è in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e articolati contro una media Ocse del 49%.
Nonostante i ritardi che caratterizzano l’Italia, stando ad uno studio “sperimentale” dell’Istat condotto su dati relativi al 2008, il valore monetario attribuibile allo stock di capitale umano di ciascun italiano – vale a dire la capacità di produrre reddito – equivale a 342 mila euro circa. Si tratta di una stima relativa solo alle attività market, ovvero quelle che vengono vendute sul mercato.
Le differenze dovute al sesso e alle età non mancano. Le donne, infatti, producono di meno: 231 mila euro contro i 435 mila degli uomini. I motivi sono diversi, spiega l’Istat. Qualche esempio? Il divario retributivo di genere (mediamente le donne percepiscono salari meno consistenti), il minor numero di donne con un’occupazione e il minor numero di ore lavorate dalla componente femminile nell’arco della vita.
Tuttavia se si estendono le stime dello stock di capitale umano alle attività non market – ovvero la produzione di beni e servizi ceduti e fruiti gratuitamente – che includono anche il lavoro domestico, il discorso prende una piega diversa. In questo caso, il valore pro capite delle donne cresce fino a toccare i 431 mila euro (+12,3% rispetto alla componente maschile).
Emergono discrepanze sostanziali anche tra le diverse fasce d’età: per l’Istat, il capitale umano pro capite di un giovane è superiore a quello dei lavoratori d’età compresa tra i 35 e i 54 anni (556 mila contro 293 mila euro) e di quelli più anziani (55-64 anni), che si fermano a soli 46 mila euro.
Tuttavia l’alto livello della disoccupazione giovanile nel nostro Paese suggerisce forte incertezza circa la possibilità per i giovani di inserirsi nei processi produttivi, osserva l’Istat. L’Istituto di statistica potrebbe così rivedere al ribasso la stima dei redditi da lavoro attesi e di conseguenza quella del valore del capitale umano complessivo del Paese.

(articolo pubblicato il 6 maggio 2015 su Tgcom24)

 

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