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Perché diminuiscono le nascite in Italia

Difficoltà occupazionali per le donne, spese aggiuntive, soglie di povertà, problemi strutturali. Così nel nostro paese si fanno sempre meno figli
di Fabio Germani

famiglia_crisiIl ministero della Salute ha istituito, nell’ambito del Piano Nazionale della Fertilità, il primo “Fertility day”, che si celebrerà il 22 settembre 2016 in tutti i comuni con il coinvolgimento dell’Anci e in particolare a Roma, Bologna, Catania e Padova, dove saranno organizzati eventi e tavole rotonde. Fin qui tutto bene, o quasi. A scatenare le polemiche online, di cui i lettori saranno certamente a conoscenza, è stata la campagna dell’organizzazione, manifesti i cui slogan – La bellezza non ha età. La fertilità sì, si legge ad esempio su uno dei più criticati – sono stati ritenuti offensivi nei riguardi delle coppie che non riescono ad avere figli per motivi di salute o che sono costrette a rimandare, con tutti i rischi del caso, a causa delle difficoltà lavorative, quindi economiche. Nelle intenzioni del governo, il Fertility dayqui il programma preliminare dell’evento – serve in parte proprio a questo, ad informare cioè le giovani coppie sul “rischio delle malattie che impediscono di diventare genitori” e “sull’aiuto della medicina per le donne e per gli uomini che non riescono ad avere bambini”, oltre che sensibilizzare l’opinione pubblica sul “pericolo della denatalità nel nostro paese”. In altre parole, il fine è pure nobile (tralasciando altri aspetti, tipo le donne e gli uomini che liberamente decidono di non avere figli), ma niente da fare: la campagna non è piaciuta. La salute è senza dubbio importante, ma non l’unica questione in ballo. Altri elementi, dal rilevante impatto socioeconomico, vengono (e non possono essere) trascurati.

ALCUNI NUMERI E IL CONFRONTO EUROPEO
Non c’è molto da dire al riguardo: in Italia le nascite sono da alcuni anni in calo e si alza l’età media in cui si diventa genitori. Nel 2015, secondo gli indicatori demografici dell’Istat, si contanto otto nascite per mille abitanti (14,2 in Irlanda, 12 in Francia, 11,9 in Gran Bretagna). Lo scorso, poi, è stato il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità, giunta a 1,35 figli per donna. L’età media delle madri al parto è salito nel frattempo a 31,6 anni. In valori assoluti, dati Eurostat, le nascite in Italia sono state nel 2015 circa 486 mila contro le quasi 801 mila della Francia, le 777 mila del Regno Unito e le 738 mila della Germania.

PERCHÉ
Da anni nel nostro paese si lamenta una carenza di politiche attive per la famiglia, al contrario dei nostri principali partner europei, dai pochi asili (e di difficile accesso) alla pratica, pur contrastata, soprattutto di recente, delle dimissioni in bianco nei luoghi di lavoro per le donne, passando per l’annoso compromesso – per le donne, sempre – tra carriera e famiglia, due obiettivi che in Italia quasi mai si riescono a coniugare. In più la crisi ha aggravato le condizioni economiche delle coppie, in molti casi già precarie. Perdita del lavoro e retribuzioni ferme al palo non sono certo incentivi a metter su famiglia, considerate le ingenti spese per il mantenimento del/dei figlio/i.

QUANTO COSTA MANTENERE UN FIGLIO AL PRIMO ANNO DI ETÀ
Premessa: il ministero della Salute sta studiando diverse possibilità che contrastino la scarsa natalità. Da alcuni mesi si parla della volontà di incrementare nella prossima legge di Stabilità il bonus bebè, entrato in vigore nel 2015 (si sta riflettendo anche sull’opportunità di stanziare un contributo una tantum destinato alle famiglie in difficoltà). Ad oggi il bonus consiste in 80 euro mensili e viene riconosciuto alle famiglie che presentano un Isee inferiore a 25 mila euro l’anno, oppure in 160 euro mensili a quelle che si trovano sotto i settemila. Oltre al reddito l’indice viene poi calcolato sulla base di altre variabili, ad esempio proprietà o debiti, numero dei componenti del nucleo familiare. Nel 2015 sono state 330 mila le coppie che hanno ricevuto l’assegno. Secondo l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori nel 2015 il costo per mantenere un figlio al primo anno di vita è variato da un minimo di 6.809 euro ad un massimo di 14.852 euro, con un aumento medio dell’1% e del 3% rispetto al 2014. Con l’avanzare degli anni è inutile dire che il costo varia sulla base del reddito familiare, perciò se consideriamo una famiglia con reddito disponibile netto di 34 mila euro annui, crescere un figlio fino alla maggiore età costerà mediamente 171 mila euro (in questo caso, invece, le stime sono del 2013). Per le famiglie con reddito basso, fino a 22.600 euro annui, la spesa al 18esimo anno del figlio si attesterà a 113 mila euro. In pratica i costi diretti di mantenimento e crescita di un figlio valgono tra il 25% ed il 35% in più delle spese sostenute da una coppia senza figli.

FAMIGLIE IN POVERTÀ
Se fare figli non è il primo step verso l’impoverimento, poco ci manca. Stando ai più recenti dati Istat nel 2015 vivevano in povertà assoluta un milione e 582 mila famiglie, pari a quattro milioni e 598 mila individui, il numero più alto dal 2005. L’incremento è dovuto all’aumento della condizione di povertà assoluta tra le famiglie con quattro componenti (da 6,7 del 2014 a 9,5%), soprattutto coppie con due figli (da 5,9 a 8,6%). Va da sé che risultino in aumento i minori in condizioni di povertà assoluta: sono un milione e 131 mila. Più di un bambino su dieci.

UN PAESE CHE STA INVECCHIANDO
Altra conseguenza logica: diminuendo le nascite, l’Italia è un paese che invecchia. Il problema, in verità, è più esteso e riguarda altre realtà europee che potranno subire in futuro ripercussioni economiche negative. Già alcuni studi della Commissione di Bruxelles hanno messo in luce come in futuro le persone anziane (65 anni o più) potrebbero aumentare a causa di diversi trend – quali fertilità, aspettative di vita, flussi migratori – che avranno un impatto sul sistema economico, in termini di forza lavoro e costi sociali (welfare, previdenza, salute), ma specialmente in termini di ricchezza non generata. Italia, Spagna, Portogallo e Grecia i più a rischio. Secondo il Fondo monetario internazionale l’invecchiamento della forza lavoro potrebbe significare un’ulteriore perdita della produttività, nel caso dell’Italia circa un terzo della crescita potenziale (più o meno l’1%).

MERCATO DEL LAVORO, LE DONNE LE PIÙ SVANTAGGIATE
Dei tanti posti di lavoro andati in fumo negli anni della crisi se ne è scritto abbastanza. In riferimento alla sola componente femminile c’è da osservare che negli ultimi tempi, in Italia e in Europa, il tasso di occupazione tra le donne è cresciuto, tuttavia senza raggiungere i livelli degli uomini. Non giriamoci intorno, sostanzialmente il tasso di occupazione femminile resta basso e il suo lieve incremento deriva anche dalla maggiore propensione delle donne ad accettare – talvolta a parità di competenze e titoli di studio – ruoli o condizioni svantaggiose (part-time involontario, ad esempio). In questi anni è diminuita pure la disoccupazione, che però si associa all’aumento dell’inattività nella componente più distante dal mercato del lavoro, di solito rappresentata proprio da mamme con figli piccoli. Per comprendere quanto sia negativa la mancata partecipazione delle donne è opportuno fare un passo indietro e tornare al 2007. Un’indagine dell’Onu, Gender Inequality, Growth and Global Aging, quantificava il bilanciamento uomo-donna nel mercato del lavoro in un aumento del Pil nell’Eurozona del 13%. Tanto basta, insomma, per ritenere fondamentale – al netto di qualsiasi iniziativa a favore della fertilità – la realizzazione di un modello di sviluppo in grado di azzerare le differenze di genere, soprattutto dove i sistemi di welfare non assicurano alle donne (e agli uomini, in definitiva) la possibilità di conciliare vita lavorativa e vita familiare.

@fabiogermani

 

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