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Le riforme del lavoro e il caso spagnolo

Secondo la Bce, la Spagna e la Germania sono i Paesi che oggi contribuiscono maggiormente alla crescita dell'occupazione dell'Eurozona
di Matteo Buttaroni

lavoro_spagnaQualche giorno fa la Banca centrale europea, attraverso il consueto bollettino mensile, sottolineava l’importanza delle riforme legate al mercato del lavoro, plaudendo in particolar modo a quei Paesi che, proprio grazie a tali riforme, oggi stanno contribuendo positivamente alla crescita dell’occupazione nell’Eurozona.
Tra questi la Spagna che, grazie alle misure adottate, ha raggiunto risultati incoraggianti rispetto quelli che hanno caratterizzato gli anni della crisi in cui il tasso di disoccupazione è aumentato vertiginosamente passando dall’8,1% del gennaio del 2007 al 26,3% del febbraio del 2013.

LA RIFORMA DEL LAVORO IN PILLOLE
Varata al termine del primo semestre del 2012 dal governo di centrodestra di Mariano Rajoy (ma già sul piatto nel 2010, quando l’esecutivo era guidato da Zapatero), per contrastare un tasso di disoccupazione che stava aumentando a dismisura, la riforma del lavoro spagnola ha puntato quasi esclusivamente sulla flessibilità interna. La finalità, quindi, era garantire una maggiore libertà decisionale al datore di lavoro in modo da favorire la produttività dell’azienda. In primis, la riforma prevede la legittimazione del licenziamento per cause economiche: nel caso in cui l’azienda si trovi ad affrontare perdite economiche o persistenti riduzioni delle entrate, il datore di lavoro può licenziare il lavoratore “per giusta causa” garantendo 20 giorni di indennizzo per anno lavorato (8 dei quali vengono pagati dal FOGASA, il fondo di garanzia salariale). Non solo, attraverso l’introduzione del “contratto per la promozione dell’occupazione” i giorni di indennizzo per i lavoratori 31-35enni sono scesi dai 45 per anno lavorato, previsti dal contratto a tempo indeterminato tradizionale, a 33.
Tra le varie misure introdotte, la riforma legittima anche il licenziamento oggettivo per assenteismo (abbassando però dal 5% al 2,5% la soglia massima di assenteismo che l’azienda può registrare), disincentiva i contratti a tempo determinato (aumentando da 8 a 12 giorni per anni lavorato gli indennizzi per il licenziamento) pianificando incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato (attraverso bonus da 1.400 euro per tre anni in caso di assunzione di donne, under-45 o individui appartenenti a classi svantaggiate).
Tra le altre cose, è stata introdotta la possibilità per le aziende di potersi sganciare, in caso di difficoltà economica, dalle soglie retributive stabilite dai contratti collettivi, mentre per i più giovani è stata innalzata l’età per accedere all’apprendistato (a 30 anni fino a quando il tasso di disoccupazione giovanile non scenderà al 15%).

I RISULTATI
Quali effetti ha prodotto la riforma del mercato del lavoro in Spagna? È come dice la Bce, ovvero che le riforme contribuiscono alla crescita dell’occupazione? In generale il tasso di disoccupazione spagnolo a tutt’oggi resta alto, ma si è comunque osservata una risalita dei livelli occupazionali. Nonostante in molti, soprattutto le opposizioni e i sindacati, abbiano lamentato una scarsa tutela dei diritti dei lavoratori (a favore delle aziende che, in base alle nuove misure, possono licenziare più facilmente), la disoccupazione dal 26,3% del gennaio del 2013 è scesa al 25,5% del gennaio del 2014, per diminuire ulteriormente – secondo le ultime rilevazioni dell’Ocse – al 19,6% del luglio di quest’anno. Oltretutto il numero dei disoccupati è sceso sotto la soglia dei quattro milioni per la prima volta negli ultimi sei anni, mentre nella media del trimestre si registra un calo dell’11,15% rispetto allo stesso trimestre del 2015, a 4,5 milioni di disoccupati. Sempre nel periodo considerato l’istituto di statistica spagnolo rileva un aumento del 2,43% degli occupati, a 18,3 milioni di unità.

(fonte: Crisi economica e riforme del lavoro in Francia, Germania, Italia e Spagna a cura di Adapt e Federdistribuzione)

 

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