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Dal Russiagate all’epoca del sospetto

Se confermate, le interferenze di Mosca rappresenterebbero un precedente pericoloso. Gli attacchi informatici aumentano su scala mondiale e i governi pensano alle contromisure
di Fabio Germani e Mirko Spadoni

Potrebbero essere stati coinvolti circa 126 milioni di cittadini statunitensi nelle presunte interferenze russe. Circa 126 milioni di utenti che hanno visualizzato su Facebook contenuti politici sponsorizzati da Mosca. Si tratta – se arriveranno le conferme – di un precedente pericoloso su cui sta indagando il Congresso statunitense. Con la collaborazione dei colossi di internet, Facebook, Google e Twitter, si vuole scoprire la portata del fenomeno e, possibilmente, pure l’efficacia. Quanto hanno inciso, cioè, sul risultato finale delle ultime presidenziali. Finora è emerso che l’operazione di interferenza sarebbe stata condotta in tutti i social network. Sempre su Facebook, stando alla testimonianza depositata e riferita da diversi media americani, i post con contenuti falsi o parziali sarebbero stati 80 mila. A queste cifre, poi, vanno aggiunte tutte le persone che si sono imbattute in pubblicità acquistate direttamente dagli account (si parla di centinaia) oggetto di indagine, sia su Facebook che su Twitter, oltre che i video caricati sui canali YouTube, adesso sospesi.

Hillary Clinton ha pubblicato di recente il libro What Happened per raccontare la sua versione su quanto accaduto l’8 novembre del 2016, attribuendo un peso notevole agli hacker russi. Tuttavia il ricordo delle motivazioni profonde che contribuirono alla vittoria di Trump (si pensi ai risultati ottenuti nella Rust Belt, un’area un tempo fiorente e altamente industrializzata) rende questa serie di ipotesi una lettura non completa. Eppure la questione, interferenze russe o no, fu sollevata immediatamente, già l’indomani dell’esito del voto. Da alcuni studi condotti dal Pew Research Center nel periodo elettorale emersero dati interessanti. Negli Stati Uniti (periodo di riferimento il 2016) quasi otto utenti adulti su dieci (il 79%; il 68% di tutti gli americani) dichiaravano di utilizzare Facebook, un aumento di sette punti rispetto ad una rilevazione analoga relativa all’anno precedente. Percentuali minori per Instagram (32%), Pinterest (31%), LinkedIn (29%) e Twitter (24%). Anche sulla frequenza di utilizzo vinceva (vince) Facebook. Sul podio, ma distaccati, Instagram e Twitter. Non dovrebbe perciò stupire se il 62% degli adulti statunitensi ammetteva a maggio 2016 di informarsi tramite i social network (e il 18% diceva di farlo spesso). Nel 2012, anno elettorale che valse il secondo mandato di Barack Obama alla Casa Bianca, la quota si attestava al 49%. A inizio 2016 si osservava nel periodo di studio (poco meno di tre settimane) che le notizie sulla campagna presidenziale alla vigilia delle primarie repubblicane e democratiche venivano apprese dalla tv via cavo nel 24% dei casi, dai social media nel 14% mentre i giornali nazionali occupavano gli ultimi posti della classifica (2%). Circa un utente su cinque — siamo ora a ottobre 2016 — ha sostenuto di avere cambiato idea su una questione politica o su un candidato sulla base di quanto di nuovo ha appreso sui social network.

Nel frattempo sono cresciuti a livello mondiale gli attacchi informatici, una situazione che coinvolge non solo istituzioni, ma anche privati e aziende. Stando all’ultimo rapporto del Clusit, l’associazione italiana per la sicurezza informatica, l’anno scorso, rispetto al 2015 sono cresciuti nel mondo tanto gli attacchi di phishing – ovvero le truffe attraverso cui vengono sottratti i dati personali degli utenti – e della cyberwarfare, ovvero la “guerra informatica” tra Stati e organizzazioni. Il Russiagate – soprattutto se le indagini dovessero accertare che quelle di Mosca sono state interferenze volte a condizionare il voto in America – è perciò una vicenda che spiega molto dei tempi che viviamo, con i governi (o altre “forze esterne”) che hanno la possibilità di manifestare il soft power in una nuova dimensione, quindi attraverso strumenti e tecnologie difficili da identificare. Non è un caso, insomma, se proprio negli Stati Uniti è stata depositata al Congresso una proposta di legge che considera la propaganda sui social media alla stregua di quella tradizionale, dunque sottoposta a regole e trasparenza ben definite. E certo non è un caso se il ministro dell’Interno, Marco Minniti, annuncia una task force per la cybersicurezza in Italia in vista delle elezioni. Senza dimenticare i timori di condizionamenti alla vigilia dei recenti (e importantissimi) appuntamenti elettorali in Francia e in Germania. Per il presidente Trump si tratta di una «caccia alle streghe». Avrà ragione? Staremo a vedere. Ciò non toglie che ormai siamo dentro l’epoca del sospetto, rinnovata rispetto al passato nei contenuti e nelle modalità e che non coinvolge più, soltanto, gli attori politici o i decisori, ma una platea tanto più ampia che comunica, condivide, rumoreggia sulle diverse piattaforme online.

@fabiogermani

@SpadoniMirko

 

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