Gli squilibri domanda-offerta di lavoro
Gli ultimi dati sulla disoccupazione attesa nell’anno e sulla situazione dei giovani adulti ancora a carico dei genitori dipingono un quadro che è in lieve miglioramento rispetto al recente passato, ma al tempo stesso risulta in crescita il tasso di posti vacanti che non trova una platea di lavoratori pronti a colmare il gap. L’ultima volta che abbiamo affrontato l’argomento, ci siamo lasciati con l’idea che ciò avvenga soprattutto a causa degli squilibri domanda-offerta di lavoro che vengono perlopiù lamentati dagli imprenditori. Mancanza di competenze, un dialogo tra mondo accademico e mondo imprenditoriale evidentemente non adeguato, sono gli elementi alla base del problema. Ma le cose stanno sempre così?
È una domanda la cui risposta può giungere esclusivamente dal lato della domanda, cioè delle imprese. Qui proviamo a mettere nero su bianco alcune considerazioni. La difficoltà nel trovare lavoratori idonei non sta nella mancanza di candidati, ma nella loro inadatta preparazione. Si ha quindi un’incompatibilità di qualifiche, ovvero un gap che riguarda tanto il livello di specializzazione quanto l’ambito. Il rischio? Un numero troppo elevato di laureati in materie poco richieste sul mercato del lavoro. Sicuramente emerge un mancato adeguamento dell’offerta didattica al mercato attuale, ma si evidenzia anche un’inefficace ricerca da parte delle imprese, talvolta non in grado di coltivare talenti a causa di insufficienti investimenti nella formazione. Soprattutto perché un’esperienza lavorativa precedente viene accolta con favore dalla maggior parte dei datori. Il punto è: chi è disposto ad assumersi l’onere di sostenere quella prima, “precedente”, esperienza lavorativa?
Lo scollamento tra posti vacanti e preparazione al lavoro di laureati deriva anche da un mercato in trasformazione, che non ha finito di delineare i suoi contorni e pone le sue basi nell’automazione e nella digitalizzazione della produzione e nella conseguente necessità di sostituzione del personale a favore di specialisti del controllo e della gestione. Le nuove tecnologie digitali, come fattori di innovazione e cambiamento, hanno comportato lo smantellamento dei precedenti paradigmi di produzione di beni ed erogazione di servizi, quindi diventa “obbligatorio” investire e utilizzare conoscenze tecnologiche. Molto più in uno scenario come il nostro, in cui le trasformazioni produttive e i cambiamenti del modo di lavorare si stanno manifestando ora su larga scala, bisognerebbe incentivare lo sviluppo del capitale umano. In particolare per riuscire a governare questi processi evolutivi.
La composizione delle imprese italiane, di norma di piccole e medie dimensioni, ha reso complesso alcuni passaggi, dalla collaborazione con le università alla formazione dei dipendenti. Ancora in tempi recenti, rileva ad esempio l’Istat, nel 13% dei casi il costo ritenuto troppo elevato è tra i motivi che spingono un’impresa a non investire in formazione, mentre il 74% delle aziende sostiene che i propri addetti siano già qualificati. Il dato sembra però essere in contraddizione con la ricerca condotta da Randstad, operatore mondiale nei servizi per le risorse umane, che registra in maniera diversa la percezione dei lavoratori italiani: il 67% degli intervistati si definisce digitalmente impreparato e appena il 57% di essi osserva che la propria azienda abbia già adottato una strategia digitale.
(questo articolo segue la prima parte, pubblicata la scorsa settimana)