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Gig economy: così il lavoro nelle piattaforme digitali

Il ministro Di Maio ha incontrato i rappresentanti delle aziende della consegna del cibo a domicilio che operano tramite app. Tra scarse tutele e opportunità lavorative qualche numero per capire meglio il fenomeno
di Redazione

Il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, Luigi Di Maio, ha incontrato i rappresentanti delle aziende della consegna del cibo a domicilio che operano tramite app e piattaforme online, pagando i lavoratori – i cosiddetti riders – a cottimo (di solito), i quali sono sprovvisti di particolari tutele e garanzie. Di qui la proposta del ministro di introdurre regole, nell’ambito di un più ampio provvedimento, che riescano a coniugare le esigenze dei lavoratori e il business delle aziende, l’impatto tecnologico e i modelli organizzativi. La possibilità che i fattorini si trasformino in lavoratori dipendenti ha messo in allarme in particolare Foodora, azienda tedesca di consegne di pasti a domicilio, che non ha escluso di dover abbandonare l’Italia in caso di nuovi interventi in questo senso. L’incontro di oggi, ha reso noto Di Maio, è andato bene. Ma si tratta del primo capitolo i un processo tanto più complesso.

Per comprendere meglio il fenomeno è opportuno delineare il quadro d’insieme. Il modello su cui si basa la gig economy – “l’economia dei lavoretti” o “on demand”, come viene comunemente definita – prevede che liberi professionisti o autonomi possano accumulare reddito negli archi di tempo in cui manca il lavoro, o arrotondare se il lavoro non è sufficiente a soddisfare i propri bisogni. Spesso si rivela una soluzione rapida ed efficace per gli studenti che intendono guadagnare qualche soldo per non gravare troppo sul bilancio delle famiglie di origine. Al di là delle condizioni socioeconomiche cui sono sottoposti i lavoratori, studi in materia in grado di dare la misura del fenomeno, al momento provengono soprattutto dagli Stati Uniti. Secondo una ricerca del Pew Research Center, quasi uno statunitense su quattro nel 2015 si è affidato alla gig economy, chi per offrire servizi tramite piattaforme online, chi vendendo prodotti, chi affittando beni di proprietà. Apparentemente, insomma, la tipologia di lavoro sembra essere una buona opportunità per chi ha necessità di arrotondare oppure per colmare i vuoti durante i periodi di difficoltà occupazionale.

Va però considerato un aspetto. Tale modello non si può applicare allo stesso modo in tutte le attività lavorative. Se consideriamo proprio le imprese che si occupano di consegna cibo, ci si accorge che il loro modello di business si basa proprio sui piccoli numeri. Stando ai dati dell’Inapp (l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), peresentati la scorsa settimana in Italia – al 2016 – Deliveroo ha solo 70 dipendenti, Foodora 45 e Just Eat 80. Foodora, soprattutto, presenta un tasso di turn over molto alto (discorso che vale meno per Deliveroo, dove i dipendenti hanno prevalentemente contratti a tempo indeterminato9. Per quanto riguarda le consegne vere e proprie, queste società impiegano perlopiù “collaboratori” e “fornitori”, ma seguendo schemi diversi. Deliveroo “utilizza” riders con collaborazioni occasionali (si trasformano in rapporti di lavoro autonomo se il compenso annuo supera i 5.000 euro annui); Foodora predilige riders con contratti co.co.co (con pagamenti per consegna); Just Eat, invece, disciplina il rapporto attraverso una soscietà ausiliaria che stipula contratti co.co.co.

Non stupisce, dunque, se nei tre casi di riferimento i costi dei servizi risultano di gran lunga superiori ai salari e, in generale, al costo del lavoro. Tradotto: i ricavi per queste piattaforme sono in costante crescita, ma il ritorno occupazionale non è in questi termini adeguato. Piuttosto in linea con l’andamento complessivo della gig economy, il cui impatto è spesso diffcile da quantificare anche perché non è semplice collocare il modello economico in una giusta dimensione data la saltuarietà che lo caratterizza. In più spesso si confonde con la sharing economy, che al contrario è l’economia della condivisione.

 

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