L’economia britannica, nonostante Brexit
Tutto ruota attorno ad una questione solo in apparenza semplice: deve essere hard o soft Brexit? Alla fine il governo conservatore guidato da Theresa May avrebbe optato per una linea morbida, un’uscita ponderata che permetterebbe al Regno Unito di beneficiare del mercato unico, soluzione che non dispiacerebbe a molte aziende. Da qui le dimissioni una appresso all’altra di due importanti ministri – David Davis e Boris Johnson –, invece favorevoli ad una posizione più dura. «Il sogno della Brexit sta morendo, soffocato da dubbi inutili», è il pensiero di Johnson espresso nella lettera di dimissioni. E adesso? E adesso è la stessa premier May a non escludere lo scenario peggiore: un divorzio di Londra da Bruxelles senza accordo.
Facciamo un passo alla volta e proviamo a immaginare cosa starebbe a significare una soluzione di questo tipo. Iniziamo con il dire che gli effetti sull’economia potrebbero rivelarsi negativi, soprattutto per quelle aziende orientate all’export e che hanno proprio nel cuore dell’Europa il principale mercato di riferimento (una crisi generalizzata, in questo senso, potrebbe anche portare ad un deterioramento del mercato del lavoro). È chiaro, tuttavia, che stiamo provando ad immaginare qualcosa che non è accaduta: tutto sommato il governo May può ancora strappare un accordo soddisfacente dal proprio punto di vista (per quanto difficile considerando poi che molto dipenderà dalle decisioni dell’UE), ma la parte più complicata sarà tenere unite le diverse anime del partito conservatore dopo i recenti strappi. A conti fatti, finora, la Brexit – che ricordiamo essere nella sua fase negoziale, pur con i tempi sempre più stretti – non ha provocato quelle catastrofi che erano state paventate prima e dopo il referendum del giugno 2016.
Il Sole 24 Ore, tra gli altri, ha di recente unito i puntini. L’economia britannica, nonostante il processo di uscita dall’Unione, gode in fondo di buona salute. Tra le prime conseguenze della Brexit si è potuta osservare una svalutazione della sterlina – in verità la riedizione di un trend che si era registrato già in precedenza – che ha aiutato al contrario le imprese. Il Regno Unito, insomma, ha visto crescere le esportazioni, «fino a raggiungere un ritmo di crescita del 16% annuo». Per le stesse ragioni sono miglioranti gli investimenti diretti esteri, essendo gli asset britannici a queste condizioni più convenienti. La disoccupazione si è attestata ai minimi, ma i salari si sono fermati e l’inflazione è aumentata. In questo modo la crescita dell’economia ha rallentato la corsa osservabile soltanto pochi anni fa.
I segni restano tuttavia positivi. Il Pil del Regno Unito, su base mensile, ha fatto registrare a maggio un +0,3%, in aumento rispetto al precedente +0,2% e in linea con le stime degli analisti. Nella prima parte dell’anno, su base trimestrale il Pil è aumentato dello 0,2%, migliorando il precedente +0,1% e superando anche le previsioni, che si mantenevano su valori stabili. Theresa May prova a resistere come può, intanto. Il nuovo ministro per la Brexit, che avrà il compito di trattare direttamente con Bruxelles, è il 44enne Dominic Raab; Jeremy Hunt il successore dell’ex sindaco di Londra agli Esteri.
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