Dunque i robot ci toglieranno il lavoro o no?
Più del Giappone. E più degli Stati Uniti. E anche più della Germania, dove tutto ha avuto inizio, almeno in Europa. In Italia, nel 2017, sono stati installati oltre 7.500 robot industriali, con un tasso di crescita del 19%. Ma è la Cina dove si è registrato l’incremento più robusto, del 58%. Sono i dati preliminari della Federazione robotica internazionale (Ifr) – ripresi qualche giorno fa dal Sole 24 Ore –, secondo cui le previsioni sono state riviste al rialzo rispetto alle stime precedenti «e il totale annuo (387 mila nuovi robot), nuovo record, evidenzia un quasi raddoppio del tasso di crescita (ora al 31%) rispetto alle indicazioni dell’ultimo rapporto annuale», per un giro d’affari complessivo pari a circa 50 miliardi di dollari.
A guidare la classifica mondiale per le installazioni di robot industriali, dunque, è la Cina. L’Italia, nella graduatoria complessiva, è ottava. Al secondo posto figura il Giappone, segue la Corea del Sud, gli Stati Uniti e la Germania. A questo punto viene da chiedersi: cosa vuol dire in termini pratici? Più robot significa meno posti di lavoro? È diventata una questione all’ordine del giorno e spesso gli studi in materia non nascondono insidie e contraddizioni. Ad esempio in Cina temono che la rivoluzione tecnologica costerà, in quindici anni, qualcosa come 40-50 milioni di posti di lavoro (China Development Research Foundation). In molte altre analisi di questo tipo è stato dimostrato che all’aumento di automazione – robotica e intelligenza artificiale – non è corrisposta una perdita di lavoro, semmai è avvenuto il contrario.
È il caso della Germania, appunto, stando a recenti stime. I risultati di uno studio condotto dal Centro per la ricerca economica europea (Zew) di Mannheim con il ministero dell’Istruzione, la Germania risulta essere la terza industria al mondo per automazione. Ma questo non ha scalfito l’occupazione tedesca, che anzi lo scorso anno ha raggiunto la soglia dei 44 milioni di posti di lavoro, il livello più alto dalla riunificazione del paese nel 1990. L’automazione, al contrario di quanto si possa credere, ha avuto un effetto positivo, portando negli ultimi anni a un miglioramento dell’occupazione dell’1% annuo rispetto allo 0,2% del periodo 1995-2011. E non è tutto: tecnologia e digitalizzazione, sono le previsioni, favoriranno una crescita dell’occupazione pari all’1,8% nel 2021. I rischi legati all’automazione dei processi produttivi non mancano di certo, ma molti studi convergono su un punto. Dove si registrano dati positivi è la dimostrazione che il lavoro non scompare, piuttosto si riqualifica a fronte di una più sofisticata interazione uomo-macchina. Ad essere sostituite o a sparire – posto che alcuni settori di attività economica, al momento, non possono essere stravolti dai cambiamenti comunque in atto – saranno soprattutto le mansioni ripetitive, usuranti e pericolose. A patto, però, che – come sottolineato d recente dall’Ocse – formazione e sviluppo di competenze siano misure adeguate. Altrimenti la perdita di posti di lavoro sarà più elevata di quanto immaginato.