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Le imprese più competitive restano quelle orientate all’export

Ma l’Italia ha beneficiato in misura minore rispetto ad altre economie dell’Eurozona della crescita nel commercio internazionale delle attività del terziario

di Redazione

Soltanto pochi giorni fa nell’Eurozone economic outlook, l’Istat osservava come il rallentamento dell’economia mondiale sia accompagnato da quello del commercio internazionale. E le tensioni commerciali con gli Stati Uniti restano tra i fattori di rischio per la crescita, al pari di altri come la Brexit. Il Gruppo Sace ha pubblicato da non molto la Risk Map 2019 per le imprese orientate all’export: «Il bilancio del 2018 – si legge nel report – è di un anno in cui la crescita è proseguita a ritmi elevati, pur se in lieve rallentamento, e il quadro dei rischi si è intensificato a causa di tensioni di varia natura (finanziarie, valutarie e geopolitiche) che hanno investito diverse economie emergenti: Argentina e Turchia sono state le principali “vittime”. Le economie avanzate, pur presentando alcune criticità, non mostrano un quadro in deterioramento. Tuttavia, alcuni rischi al ribasso, quali una Brexit “disordinata” e il rallentamento di Stati Uniti e Unione europea, vedono aumentare la loro probabilità di accadimento. Guardando ai fondamentali dell’economia americana crediamo che, almeno per il 2019, una recessione o un crollo del mercato azionario siano improbabili».

Per comprendere meglio il fenomeno e restare in Italia, un buon punto di partenza è il recente Rapporto sulla competitività dei sistemi produttivi. Già negli anni della crisi, in particolare nel periodo 2011-2014 si era osservato un trend volto a sottolineare come le imprese, per migliorare la propria competitività, sia stata quella di riuscire ad intercettare la domanda dei mercati esteri. Ma ad esempio – spiega stavolta l’Istat – l’Italia ha beneficiato in misura molto minore rispetto alle altre economie dell’area dell’euro della forte crescita nel commercio internazionale delle attività del terziario: nel 2018 il valore delle esportazioni di servizi era inferiore al 6 per cento del Pil, contro l’8,3 in Germania, il 9,3 in Francia e il 10,5 in Spagna.

Per quanto riguarda la partecipazione delle imprese esportatrici italiane agli scambi internazionali, emerge che è sì, estesa in termini di attori, ma è limitata in termini di intensità: i primi 50 esportatori italiani spiegano meno del 22% dell’export del paese, mentre in Germania la quota sfiora il 45% e in Francia è di poco superiore (46,5%). Tra il 2010 e il 2017 la crescita delle esportazioni italiane è stata guidata principalmente dal margine intensivo, cioè l’aumento del valore delle esportazioni per ciascuna combinazione prodotto-destinazione. Tuttavia, rispetto alle altre grandi economie dell’area euro, e in particolare alla Germania, essa è stata sostenuta in misura significativa (per oltre un terzo) anche dal margine estensivo (aumento dei prodotti o dei paesi in cui si esporta).

Le imprese possono dividersi, sulla base della combinazione degli andamenti del fatturato sul mercato interno ed estero, in “vincenti” (che nel 2018 crescono in Italia e all’estero) o “in ripiegamento”. Tra le prime, le imprese manifatturiere sono il 24,3% del totale (erano il 20,4 per cento nel 2017). «Si caratterizzano per livelli superiori alla media in termini di produttività, intensità di capitale, diversificazione dei prodotti esportati e dei mercati di destinazione. Sono unità appartenenti soprattutto ai settori dei prodotti petroliferi, della metallurgia, degli mezzi di trasporto, dei mobili e della farmaceutica, ma sono presenti anche nel tessile e nei macchinari», spiega l’Istat.

Le imprese “in ripiegamento”, al contrario, sono circa un terzo del totale (erano il 20,4% nel 2017) e nel 2018 hanno subito perdite in entrambi i mercati. Si tratta di unità poco esposte sui mercati esteri, ad alta intensità di capitale e integrate verticalmente, presenti soprattutto nei settori dell’abbigliamento, degli autoveicoli e delle apparecchiature elettriche.

 

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