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Come sarà lo smart working dopo l’emergenza

Il “lavoro agile”, strumento indispensabile per assicurare continuità nel lavoro durante la fase di lockdown, potrebbe diventare la norma per un lavoratore su tre della PA

di Redazione

Il dossier Iniziative per il rilancio 2020-2022, consegnato ieri al governo dalla task force Colao, la Commissione di esperti in materia economica e sociale istituita per proporre un piano di ripartenza del paese dopo il lockdown per contenere la diffusione del coronavirus, prevede tra i diversi punti espressi, anche la proposta di uno smart working regolamentato.

Il documento propone infatti di promuovere la diffusione delle modalità di lavoro agile sia nella pubblica amministrazione che nel privato, e soprattutto adottare un codice etico che possa regolamentare i tempi di vita e i tempi di lavoro anche se in modo flessibile,  garantire il diritto alla disconnessione e permettere una valutazione del lavoro da parte del datore sulle performance e i risultati e non sul tempo impiegato.

L’obiettivo post-coronavirus rimane quello di confermare lo smart working così da sfruttarne le potenzialità in termini di riduzione dei costi per aziende e lavoratori e di miglioramento di produttività e benessere collettivo, tenendo conto anche delle differenze di genere e di età.

Attualmente lo smart working è fortemente consigliato per quelle posizioni per cui è possibile lavorare in modo agile ed è ancora fino al 31 luglio un diritto per persone con disabilità e per i genitori con figli minori di 14 anni. In generale invece i datori di lavoro sia pubblici che privati, possono applicare lo smart working per ogni rapporto di lavoro subordinato fino alla fine dello stato di emergenza e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2020.

Il ritorno alla normalità anche lavorativa si sta però già affacciando e molte aziende stanno ripensando il futuro dei loro dipendenti e dei loro uffici proprio grazie alla sperimentazione dello smart working in fase di emergenza. Anche la ministra della Pubblica amministrazione, seppur in modo non radicale, ha annunciato che il lavoro agile sarà un’opzione anche per il futuro, l’obiettivo è quello di mantenere postazioni da remoto per il 30% dei dipendenti delle PA.

Per mantenere la modalità di lavoro è necessaria una regolamentazione che tuteli sia il lavoratore che il datore, e che non faccia dello smart working un semplice lavoro da casa, come richiesto dal dossier per il rilancio.

Intanto, secondo una ricerca di Fpa, il 93,6% dei dipendenti pubblici intervistati vorrebbe continuare con lo smart working anche dopo l’emergenza, ma per il 66% il lavoro da casa dovrebbe essere alternato con rientri in ufficio. Secondo l’indagine, nel 70% dei casi è stata assicurata continuità al lavoro e oltre il 41% dei lavoratori ammette che l’efficacia è migliorata, come sono migliorate anche le relazioni con i colleghi (per il 20% di essi, mentre per il 50% la distanza dovuta allo smart working non ha intaccato i rapporti).

Lo smart working quindi sta facendo ricredere dipendenti e datori sull’effettiva efficacia, e potrebbe rendere più facile per le aziende pensare al ritorno in ufficio, quando per via del distanziamento sociale che deve essere mantenuto, gli spazi a disposizione non potranno ospitare tutti i dipendenti. Soprattutto perché negli ultimi anni l’architettura dominante è stata quella del co-working, quindi grandi open space, con scrivanie condivise, senza posto assegnato e spazi comuni. Da un lato il co-working renderebbe più facile il distanziamento semplicemente riducendo il numero di lavoratori sullo stesso tavolo rispetto ai vecchi uffici piccoli in cui si trovavano più persone, dall’altro è però necessaria una turnazione, previa prenotazione della scrivania e un maggiore controllo.

 

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