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Come la pandemia aumenta le disuguaglianze sociali

L’ultimo rapporto annuale dell’Istat fotografa un paese fragile e non ancora ripreso del tutto dalla crisi del 2008-2009. Con l’emergenza sanitaria, che ha colpito le persone più vulnerabili, i divari potrebbero ora ampliarsi  

di Redazione

Che l’ascensore sociale in Italia sia guasto da tempo, è cosa purtroppo risaputa. Quello che abbiamo potuto apprendere in più, proprio in questi giorni, è che la pandemia, in questo senso, avrà un impatto significativo nelle vite delle generazioni più giovani. In particolare, spiega infatti l’Istat nel Rapporto annuale 2020, «la pandemia da COVID-19 si è innestata su una situazione sociale caratterizzata da forti disuguaglianze, più ampie di quelle esistenti al momento della crisi del 2008-2009». C’è da dire, tuttavia, che la classe sociale di origine influisce ancora in misura rilevante sulle opportunità degli individui nonostante il livello di ereditarietà complessiva in Italia – seguendo, sia pure con ritardo, l’esperienza di molti altri paesi europei – si sia progressivamente ridotto nel volgere delle generazioni. «Per la generazione più giovane tale evoluzione non ha, però, portato effetti positivi in quanto è stata accompagnata da un contemporaneo downgrading della loro collocazione e, dunque, da una diminuzione delle probabilità di ascesa sociale».

Nello specifico, per i nati tra il 1972 e il 1986 la quota di chi sperimenta una mobilità verso il basso (26,6%) è tale da superare – spiega il Rapporto annuale 2020 – i livelli registrati da tutte le generazioni precedenti, inclusa quella più anziana, ossia quella dei nonni (21,8%). Questo peggioramento è tanto più incisivo se si considera che, tra i componenti dell’ultima generazione, la quota di persone mobili in senso discendente supera quella con mobilità ascendente, marcando così una netta discontinuità nell’esperienza storica  compiuta dalle generazioni nel corso di tutto il XX secolo.

Sul fronte del mercato del lavoro – che l’Istat definisce veicolo fondamentale di opportunità e riduzione delle disparità sociali –, i principali indicatori riferiti allo scorso anno mostrano un aumento delle diseguaglianze territoriali, generazionali e per titolo di studio rispetto al 2008. I dati rivelano una riduzione di quelle di genere, ma non è necessariamente una buona notizia perché ciò è avvenuto anche per effetto del peggioramento della situazione occupazionale degli uomini. Le donne, insieme ai giovani e ai lavoratori del Mezzogiorno, restano più esposte a una bassa qualità del lavoro: ad essa sono associate retribuzioni inferiori alla media, elevati rischi di perdita del lavoro e alto livello di segregazione occupazionale.

Un aspetto particolarmente critico, poi, è rappresentato dall’elevato tasso di irregolarità dell’occupazione, più alto tra le donne, nel Mezzogiorno, tra i lavoratori molto giovani e tra quelli più anziani. È un segmento del mercato del lavoro strutturalmente debole e più esposto, nella particolare situazione seguita al diffondersi dell’epidemia, a causa delle difficoltà di accesso agli ammortizzatori sociali e dell’impossibilità di giustificare formalmente nel lockdown gli spostamenti per motivi di lavoro. Il numero di famiglie coinvolte è elevato: si stima che siano circa 2,1 milioni quelle che hanno almeno un occupato irregolare – oltre 6 milioni di individui, pari al 10% della popolazione – e che ben la metà di esse includa esclusivamente occupati non regolari.

A tutto questo, si aggiunga infine l’ulteriore criticità legata alle difficoltà di conciliare i tempi di vita. L’offerta di servizi per la prima infanzia, carente e diseguale sul territorio, svantaggia le donne – scoraggiandone la partecipazione – e svantaggia i bambini delle famiglie meno agiate che non usano il nido, perché costoso o non disponibile. La pandemia e le restrizioni imposte per contenere il contagio, hanno un forte impatto sull’organizzazione familiare con il risultato di aumentare entrambi gli svantaggi: il primo a sfavore delle donne, non supportate dai nonni nella cura dei figli; il secondo a sfavore dei bambini, accentuando le distanze di quelli già penalizzati da situazioni abitative disagiate e in condizioni socio-economiche non adeguate a sopperire gli effetti della chiusura delle scuole.

(fonte: Istat)

 

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