Lavoro, lo squilibrio della spesa sociale in Italia
Secondo l’Inapp la quota del PIL destinata ai servizi e alle misure di attivazione per i disoccupati è pari allo 0,2% contro il 16% assorbito dalla voce “vecchiaia e superstiti”
di Redazione
In Italia, nonostante la spesa per le prestazioni sociali sia superiore a quella della media europea, la quota destinata ai servizi e alle misure di attivazione per i disoccupati è piuttosto esigua, risultando un terzo di quella stanziata dagli altri paesi dell’UE, lasciando intravedere un maggior orientamento verso i trasferimenti monetari di natura previdenziale, anziché verso gli investimenti in materia di capitale umano e politiche attive del lavoro.
È quanto emerso dai numeri presentati dall’Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, nel corso del convegno Lavoro, welfare e sicurezza sociale: le nuove sfide, in cui sono stati snocciolati i risultati di due Rapporti di ricerca frutto, rispettivamente, di una convenzione con l’Università Luiss Guido Carli – Sep e del progetto europeo Mospi.
Secondo gli ultimi dati dell’Eurostat, relativi al 2019, la spesa italiana per le prestazioni sociali si attesta al 28,3% del Prodotto Interno Lordo, contro il 26,9% della media europea, eppure solo lo 0,2% del PIL è destinato ai servizi e alle misure di attivazione per i disoccupati – mentre il livello nel resto d’Europa è pari allo 0,6% – contro il 16% del PIL assorbito dalla voce “vecchiaia e superstiti”.
Scomponendo invece la spesa sociale, si può osservare come la quota “vecchiaia e superstiti” ne rappresenti oltre la metà, con il 58,3% totale, a fronte del 28,6% rappresentato dalla componente “malattia/salute e invalidità”, del 3,9% di quella “famiglia/figli”, del 5,7% di quella relativa alla “disoccupazione” e del 3,5% destinato al “contrasto alla povertà ed esclusione sociale”.
Secondo l’Inapp, questo squilibrio tra la grande mole di trasferimenti monetari e la scarsità di investimenti sociali, sul mercato del lavoro si traduce in una bassa partecipazione femminile, ad un basso livello di occupazione a più alto valore aggiunto e ad una crescita del lavoro “fragile” e lavoratore “fragile” molto spesso significa lavoratore povero: il rischio di diventarlo è circa il doppio per i lavori part-time (15,8%) rispetto ai lavori a tempo pieno (7,8%) e circa tre volte maggiore per i lavoratori per un contratto temporaneo (16,2%) rispetto a quelli con contratti permanenti (5,8%).