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Stati Uniti: guida alle elezioni di metà mandato

Si voterà l’8 novembre per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di un terzo del Senato. Perché sono importanti per Biden (soprattutto) e anche per noi

di Fabio Germani

L’8 novembre 2022 si terranno negli Stati Uniti le midterm, vale a dire le elezioni di metà mandato, così chiamate perché giungono alla metà, appunto, del mandato dell’amministrazione in carica. I cittadini statunitensi sono chiamati a rinnovare la Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato. In più si terranno anche consultazioni locali per eleggere i nuovi governatori o governatrici di 36 Stati, con il rinnovo dei parlamenti statali. Il mix di voto a livello federale e statale sarà perciò un banco di prova importante per i due principali partiti, Democratico e Repubblicano, soprattutto in vista delle presidenziali 2024. Tradizionalmente l’appuntamento delle midterm non premia l’inquilino della Casa Bianca (quasi mai il presidente in carica è riuscito a mantenere la maggioranza al Congresso), ma stavolta l’incertezza, o almeno la maggiore attenzione, è dovuta dall’incognita Trump (si ricandiderà? e ancora: che risultato otterranno i candidati del GOP, all’incirca tutti riconducibili alla sua sfera di influenza? con quali ripercussioni nel campo delle future primarie repubblicane?) e in parte anche Biden, il quale proprio di recente ha dichiarato che renderà nota a novembre l’intenzione o no di correre per un secondo mandato tra due anni.

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I temi delle midterm 

Spesso, specie alla vigilia di un voto importante, centri studi e analisti si concentrano sulla priorità dei temi, il cui primo posto in America è occupato, di norma, dall’economia. Anche quest’anno – e forse più che in passato – sarà così, a fronte dei rincari, dell’inflazione e delle conseguenze nella vita dei cittadini legate alle vicende geopolitiche degli ultimi mesi. Secondo un recente sondaggio del Pew Research Center – che tornerà utile nella nostra guida anche più avanti – l’economia (77% nel valore complessivo) è la priorità assoluta nella prospettiva delle midterm tanto per gli elettori repubblicani (90%) quanto per i democratici, sebbene in percentuale ridotta (67%). Seguono le politiche di controllo sulle armi (62%), il crimine violento (60%), l’assistenza sanitaria (60%) e le regole di voto (59%). In fondo alla classifica delle priorità, invece, compaiono il coronavirus (28%), le questioni razziali (35%) e il cambiamento climatico (40%). Tuttavia i dati complessivi non devono indurre in errore, in quanto determinati dalle risposte, come abbiamo già visto nel caso dell’economia, di elettori repubblicani e democratici, quindi di parte, con i primi tendenzialmente più propensi ad eliminare dalla lista delle priorità temi che in apparenza poco hanno a che fare con l’economia o distanti dall’universo dei valori conservatori. Al contrario, tra i democratici, il 77% considera l’assistenza sanitaria un indirizzo di voto molto importante, mentre il 71% afferma lo stesso sulle armi, il 69% sulle nomine della Corte Suprema (a breve capiremo perché), il 66% sul cambiamento climatico e il 54% sulle questioni razziali. 

Il tema dell’aborto

C’è un tema che fin qui non abbiamo preso in considerazione, ma che in queste settimane sta tenendo comprensibilmente banco negli Stati Uniti: il diritto all’aborto sicuro. Ed è qui che entra in ballo la Corte Suprema. Da quando quest’ultima, il 24 giugno 2022, ha ribaltato la Roe v. Wade – la sentenza del 1973 con cui venne riconosciuta la garanzia federale del diritto all’aborto negli Stati Uniti –, il tema è cresciuto in termini di rilevanza e potrebbe pesare – ci arriviamo nel prossimo paragrafo – anche sulle scelte di voto alle elezioni dell’8 novembre. Il presidente Joe Biden, per primo, ha spinto parecchio in questa direzione, ricordando in diverse occasioni agli elettori che, arrivati al punto in cui si trovano, è opportuno mandare al Congresso rappresentanti – democratici, si intende – intenzionati a ripristinare quantomeno le tutele della Roe v. Wade. Fin qui, infatti, negli Stati Uniti non è mai esistita una legge univoca, semmai era il precedente del ‘73 a imporre il vincolo federale, condizione che ha presto trasformato il dibattito da ostico a proibitivo, classico esempio dell’America polarizzata. A maggior ragione, adesso, i singoli Stati possono andare in ordine sparso, con enormi differenze tra quelli a trazione repubblicana e quelli a guida democratica. Di conseguenza, in ordine sparso, ci vanno pure le contromisure. Ad agosto i cittadini del Kansas hanno respinto tramite referendum la norma che avrebbe altrimenti impedito l’accesso alle interruzioni di gravidanza; in West Virginia l’aborto è vietato quasi del tutto e anche il Texas, quanto a restrizioni, peraltro introdotte prima del ribaltamento della sentenza, di certo non scherza; non molti giorni fa i giudici dell’Ohio e dell’Arizona hanno temporaneamente bloccato le leggi statali che sanciscono il divieto. Negli Stati liberal come la California, invece, si lavora ad un possibile allargamento del diritto e altri referendum sono in programma. Insomma, la decisione della Corte Suprema – chiamata a valutare una legge del Mississippi che scavalcava la Roe v. Wade – ha contribuito a ridisegnare la mappa del paese, ampliando le già evidenti (e sparse) divisioni che contraddistinguono l’eterogenea società americana. Ma soprattutto, non a caso, la pronuncia è giunta proprio ora che siedono in maggioranza sei giudici conservatori, tre dei quali nominati dall’ex presidente Donald Trump (Neil M. Gorsuch, Brett M. Kavanaugh e Amy Coney Barrett), il che spiega l’attenzione degli elettori dem rivolta alla Corte Suprema, la quale non ha goduto di ottima reputazione nei periodi immediatamente successivi

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Ad ogni modo l’esito della consultazione in Kansas è una notizia interessante riguardo la diffusione di opinioni favorevoli al diritto di aborto, circostanza già messa in luce dai sondaggi condotti alla vigilia della pronuncia della Corte Suprema. La vicinanza politica ad un partito anziché all’altro resta però un tratto caratteristico. Secondo la stessa rilevazione del Pew Research Center, il 56% degli elettori registrati lo considera un tema centrale per le elezioni midterm, in aumento dal 43% di marzo. Tuttavia questo risultato non dice granché: la sentenza sembra avere smosso soltanto le coscienze dei sostenitori democratici, che dal 46% di marzo – tra coloro che la vedono così – sono passati al 71% dei mesi successivi, mentre i pareri degli elettori repubblicani sono rimasti all’incirca gli stessi di allora (40-41).   

Quanto è importante l’appuntamento delle midterm secondo i cittadini statunitensi

Un’altra tendenza negli Stati Uniti è quella di osservare l’appuntamento delle midterm con minore trasporto rispetto alle presidenziali. Ma anche questo mito, per così dire, sta decadendo, ormai da alcune tornate elettorali. La crescente polarizzazione è una spiegazione plausibile del perché e percome il trend stia invertendo la rotta. Lo stesso appello di Biden, relativo al tema aborto, è in parte una conferma. Dunque, restando nella stretta attualità, ancora il Pew Research Center informa che sempre più persone – nelle varie ripartizioni di genere, razza, età e titolo di studio – ritengono un fattore importante quale partito abbia la maggioranza al Congresso. Per illustrare meglio il contesto, pur sintetizzando di molto l’intera faccenda, nel caso in cui i democratici dovessero ottenere il (pieno) controllo di Senato e Camera (scenario altamente inverosimile, vedremo tra poco) ciò imporrebbe un’accelerazione dell’agenda Biden, con riflessi – in presenza di provvedimenti popolari – alle presidenziali 2024. Da una recentissima indagine New York Times / Siena Poll emerge che la stragrande maggioranza dei possibili elettori si recherà ai seggi l’8 novembre: il 60% si dichiara al riguardo «quasi sicuro», il 31% afferma che lo farà «molto probabilmente» e il 4% che è «abbastanza probabile»; a questi si aggiunge un 2% di elettori che ha già provveduto attraverso le modalità di voto anticipato. 

Cosa dicono i sondaggi

In generale, in linea con la tradizione che vuole il partito del presidente in carica partire sfavorito, i sondaggi non hanno mai visto i democratici in testa in questi mesi. I repubblicani hanno mantenuto un vantaggio più o meno consistente per tutto il tempo. Eppure il tema dell’aborto era riuscito, specie all’inizio, a ricompattare l’elettorato democratico attorno ad una specifica, fondamentale questione, al punto da registrare in estate un lento, ma costante recupero. Ora l’effetto sembra leggermente svanito. Il sondaggio New York Times / Siena Poll mette in luce la maggiore possibilità di votare un candidato repubblicano, con il 49% dei potenziali elettori che si esprime in questo modo e il 45% in senso contrario – opportuno ricordare che i rappresentanti si scelgono distretto per distretto –, pur emergendo significative differenze per età (l’elettorato più giovane si muove grossomodo in direzione democratica) e per composizione razziale (i bianchi sono più propensi a votare un candidato repubblicano, gli ispanici un democratico e così i neri, anche più convintamente). Inoltre da una rilevazione CBS News / YouGov si scopre che la quota di quanti ritengono il tema dell’aborto veramente importante in vista del voto è scesa dal 59% di settembre al 54% di ora. Con l’economia a primeggiare tra le issues, i repubblicani potrebbero guadagnare consensi. 

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Allora si spiegano anche per queste ragioni alcune mosse di Biden. In queste ore il presidente ha infatti ribadito che se i cittadini eleggeranno più senatori democratici e il suo partito manterrà il controllo della Camera, il primo disegno di legge che invierà al Congresso riguarderà i principi della Roe v. Wade per legalizzare l’accesso all’aborto in tutto il teritorio federale (chiaramente, sul fronte aborto, potrebbe assumere maggiore importanza il voto per i governatori e il rinnovo dei parlamenti statali). Inoltre, Biden ha annunciato nei giorni scorsi l’eliminazione del reato federale di possesso di marijuana, quindi le pene di circa 6.500 persone condannate tra il 1992 e il 2021. Una misura dall’impatto alquanto simbolico (Biden ha giustappunto esortato i governatori a fare altrettanto sul piano statale: le stime dei detenuti per la tipologia di reato sono molto più alte), che a poche settimane dalle elezioni potrebbe mobilitare soprattutto giovani e minoranze. E, strizzando l’occhio ancora ai giovani, Biden ha infine presentato un ambizioso piano per cancellare il debito studentesco per milioni di americani. In conclusione, secondo FiveThirtyEight, i repubblicani hanno, mentre scriviamo, il 38% di possibilità di vincere entrambi i rami del Congresso, i democratici il 24%. Più probabile lo scenario secondo cui i dem mantengano il Senato e i repubblicani ottengano la maggioranza alla Camera. Nello specifico, al Senato, i repubblicani hanno di più da perdere poiché dei 35 seggi in palio, 21 appartengono proprio a loro. Qui, oggi, i due schieramenti hanno 50 seggi ciascuno e la maggioranza dem è garantita dalla vicepresidente Kamala Harris, ago della bilancia in qualità di presidente del Senato in caso di pareggio. Rimane il fatto che quello che è lo scenario più accreditato risulterebbe essere un grosso ostacolo per lo sviluppo dell’agenda Biden nei prossimi due anni di mandato.   

Come votano (di solito) le minoranze

Conoscere la frammentazione sociale e i comportamenti elettorali delle minoranze è un esercizio utile a comprendere le possibili tendenze del futuro, tanto più in previsione di dinamiche demografiche per cui nel giro di un paio di decenni, forse meno, i bianchi saranno minoranza (intanto sono diminuiti dell’8,6% dal 2010). Tuttavia l’errore comune è quello di ritenere, ad esempio l’elettorato nero, un blocco monolitico. Sicuramente le minoranze presentano tratti distintivi nelle scelte di voto, ma questo non vuol dire che il risultato finale sia sempre il medesimo. Ad ogni modo, procedendo per sommi capi, di nuovo il Pew Research Center afferma che il numero di elettori neri negli Stati Uniti è cresciuto a un ritmo modesto negli ultimi anni e dovrebbe raggiungere i 32,7 milioni nel novembre 2022. Allo stesso tempo, gli elettori neri si distinguono per i loro tassi di affluenza alle urne relativamente alti. Nel 2018 si attestò al 51%, superiore a quello degli aventi diritto latini e asiatici nello stesso anno (entrambi al 40%). Ad agosto il 70% degli elettori neri dichiara il voto (alla Camera) per i candidati democratici, percentuale in linea con i dati New York Times / Siena Poll. 

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Per quanto riguarda gli ispanici americani, il Pew stima che saranno circa 34,5 milioni gli aventi diritto quest’anno, rendendo i latini il gruppo razziale ed etnico in più rapida crescita nell’elettorato statunitense dalle ultime elezioni di metà mandato. L’aumento è di 4,7 milioni dal 2018, rappresentando il 62% dell’incremento totale degli elettori statunitensi. Questo segmento demografico ha mostrato negli anni comportamenti meno univoci. Molto dipende dagli usi derivanti dal luogo di origine e, talvolta, anche dal grado di fede religiosa. Sebbene in generale siano più inclini a esprimere le loro preferenze per il Partito democratico, non si può dimenticare che nel 2020 Trump ha registrato una solida crescita in questa porzione di elettorato. Infine gli asiatici americani sono il gruppo di elettori che ha evidenziato il più elevato ritmo di crescita negli ultimi due decenni, ma dal 2018 si è invece osservato un rallentamento. Secondo il sondaggio del Pew Research Center di agosto, il 57% degli elettori in questo gruppo afferma che «probabilmente» sosterrà il candidato democratico nella corsa alla Camera del proprio distretto, mentre il 26% si è espresso a favore del candidato repubblicano. Di norma, alle midterm, gli asiatici presentano un tasso di partecipazione inferiore agli altri gruppi, ma piuttosto simile a quello degli ispanici. Vedremo se i trend si confermeranno anche stavolta.  

I giudizi su Biden 

Da quando ha fatto il suo ingresso alla Casa Bianca, se escludiamo i primi mesi del 2021 condizionati anche dalla precedente frattura politica causata dal mancato riconoscimento della vittoria da parte dell’allora presidente uscente Trump, Joe Biden in realtà non ha mai goduto di un tasso di approvazione particolarmente alto. Da settembre ad oggi, secondo la media di FiveThirtyEight, l’indice è stabile attorno al 42%, non un valore chissà quanto lusinghiero, ma neppure troppo dissimile da quelli che avevano i predecessori Trump e Obama nello stesso momento (a luglio, però, Biden era sceso addirittura al 38-39%). Non è un dato determinante ai fini di quello che sarà l’esito del voto dell’8 novembre, tutt’altro come abbiamo potuto constatare, ma resta comunque un elemento interessante per completare il quadro d’insieme.  

Perché le elezioni di metà mandato interessano anche noi

Per rispondere a questa domanda bisogna tornare al punto di partenza, ovvero capire il tipo di impronta che il presidente Biden (ma la circostanza potrebbe coinvolgere un qualunque presidente repubblicano al suo posto) riuscirà a dare all’amministrazione da qui alla fine del mandato, senza contare cioè un’eventuale permanenza alla Casa Bianca per altri quattro anni in caso di rielezione nel 2024 (ammesso che si ricandidi). L’agenda Biden avrebbe ripercussioni anche nel resto del mondo occidentale, almeno in termini di visione di sviluppo economico e di sfide comuni. E in questo senso non si può non tenere conto della guerra in Ucraina e del sostegno americano alla causa di Kiev, specie quando il Congresso è stato chiamato a esprimersi sugli aiuti militari, trovando talvolta forme di opposizione nel GOP tra gli esponenti più vicini all’ex presidente.

@fabiogermani

 

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