I dati aggiornati sul primo trimestre dell’anno confermano una brusca frenata per l’industria automobilistica italiana, con volumi produttivi in netto calo che allontanano l’obiettivo governativo di rilancio del settore.
L’ultimo report trimestrale elaborato dalla Fim-Cisl restituisce una fotografia allarmante dello stato di salute del comparto automotive nazionale, evidenziando un’inversione di tendenza rispetto alla crescita registrata l’anno precedente. Secondo i dati raccolti dai sindacati, la produzione complessiva di Stellantis in Italia ha subito una flessione del 9,8% rispetto allo stesso periodo del 2023, ma il dato diventa ancora più drammatico se si isola il segmento delle sole autovetture, dove il crollo tocca quota 23,8%. Questa contrazione improvvisa interrompe il trend positivo che aveva caratterizzato il post-pandemia e getta nuove ombre sulla tenuta industriale degli stabilimenti italiani, evidenziando una pericolosa discrepanza tra le capacità produttive installate e la domanda reale del mercato.
L’epicentro di questa crisi industriale è senza dubbio lo storico stabilimento di Mirafiori, che sta pagando il prezzo più alto della transizione ecologica e delle difficoltà commerciali legate ai modelli elettrici. La Fiat 500 elettrica, modello di punta del sito torinese, ha registrato volumi di vendita nettamente inferiori alle aspettative, costringendo l’azienda a un massiccio ricorso alla cassa integrazione per migliaia di addetti e alla riduzione dei turni lavorativi. La situazione è talmente critica che i sindacati hanno lanciato un appello urgente per l’assegnazione di nuovi modelli termici o ibridi allo stabilimento, ritenendo insostenibile la strategia basata esclusivamente su una singola vettura a batteria in un momento di stagnazione della domanda europea per i veicoli a zero emissioni.
Le ripercussioni di questo rallentamento non si limitano ai soli stabilimenti di assemblaggio finale, ma rischiano di generare un effetto domino devastante sull’intero indotto automotive italiano. Le aziende della componentistica, che rappresentano un’eccellenza del Made in Italy, si trovano ora a dover gestire ordini in calo e una visibilità produttiva ridotta al minimo, con il rischio concreto di perdere competitività e posti di lavoro. Gli analisti sottolineano che senza un’inversione di rotta rapida, il calo dei volumi potrebbe diventare strutturale, compromettendo definitivamente la capacità dell’Italia di mantenere un ruolo centrale nella mappa produttiva europea.
Di fronte a questo scenario preoccupante, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, sta cercando di accelerare le trattative per blindare la produzione nazionale e raggiungere la soglia psicologica e strategica di un milione di veicoli l’anno. Durante i recenti incontri del Tavolo Automotive, il governo ha ribadito la necessità di aumentare i volumi produttivi negli stabilimenti italiani come condizione essenziale per l’erogazione dei nuovi incentivi statali. L’esecutivo si trova in una posizione complessa: da un lato deve supportare la transizione ecologica, dall’altro deve esercitare una moral suasion su Stellantis affinché non delocalizzi la produzione dei modelli più redditizi verso paesi a basso costo di manodopera.
Una parte fondamentale della strategia governativa risiede nel nuovo schema di Ecobonus, rimodulato per favorire non solo l’acquisto di auto elettriche, ma anche per stimolare la rottamazione del parco circolante più vecchio e inquinante. Tuttavia, i ritardi nell’attuazione dei decreti attuativi hanno creato un effetto attesa che ha paradossalmente paralizzato il mercato nei primi mesi dell’anno, contribuendo all’accumulo di stock invenduti. L’obiettivo è quello di rendere i nuovi incentivi uno strumento strutturale capace di sostenere la domanda interna, ma gli esperti avvertono che i sussidi all’acquisto da soli non basteranno a risolvere i problemi di competitività industriale se non accompagnati da investimenti diretti sulle linee produttive.
Per ridurre la dipendenza da un unico grande produttore e raggiungere il target del milione di unità, il governo ha aperto canali diplomatici e commerciali con costruttori esteri, guardando con particolare interesse alla Cina. Sono in corso interlocuzioni avanzate con colossi come Dongfeng e Chery per valutare l’apertura di nuovi stabilimenti di assemblaggio sul territorio italiano, un’ipotesi che cambierebbe radicalmente la geografia dell’auto nel nostro Paese. Sebbene l’arrivo di un secondo costruttore potrebbe portare ossigeno all’occupazione e alla filiera, resta da sciogliere il nodo politico e strategico dell’apertura del mercato europeo ai marchi cinesi, in un delicato equilibrio tra protezionismo e necessità di attrarre nuovi capitali esteri.
In conclusione, il 2024 si preannuncia come un anno spartiacque per l’industria dell’auto italiana, stretta tra l’urgenza di numeri produttivi che non arrivano e la necessità di governare una transizione tecnologica sempre più complessa e costosa.
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