“Fammi vedere subito il tuo telefono” | Il tuo capo può aprire il tuo Whatsapp e farsi gli affari tuoi: la Cassazione ha deciso
La Cassazione ha stabilito che le aziende possono leggere le chat interne dei dipendenti in caso di illeciti, come nel caso di un dirigente Amazon licenziato. Scopri i limiti della tua privacy.
La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza che ridefinisce i confini della riservatezza sul luogo di lavoro, confermando la legittimità per le aziende di utilizzare per motivi disciplinari le conversazioni contenute in una chat aziendale. A differenza di un generico gruppo su WhatsApp, una chat aziendale è esplicitamente destinata alle comunicazioni di servizio dei dipendenti. È, a tutti gli effetti, uno strumento di lavoro e non uno spazio per la corrispondenza privata, e come tale può essere acquisita dall’azienda qualora sospetti che sia stato commesso un illecito.
Questa decisione, maturata a seguito di un ricorso che ha coinvolto un ex dirigente di Amazon, chiarisce che le conversazioni all’interno di una piattaforma aziendale non godono della stessa tutela delle comunicazioni personali. La pronuncia della Suprema Corte apre a un quadro più definito su cosa le aziende possano e non possano fare nell’ambito della sorveglianza digitale interna, bilanciando il diritto alla riservatezza del lavoratore con le legittime esigenze di controllo del datore di lavoro per la tutela dell’integrità aziendale.
Il caso Amazon: un licenziamento per giusta causa
Il caso Amazon: il licenziamento per giusta causa al centro del dibattito.
Il fulcro della vicenda giudiziaria che ha portato alla pronuncia della Cassazione riguarda un dirigente delle risorse umane di Amazon. L’uomo era stato licenziato nel luglio del 2020 a seguito dell’analisi di alcuni messaggi scambiati nella chat di lavoro. Dalle conversazioni era emerso che il dirigente, dopo circa tre anni in Amazon, aveva cambiato idea sull’assunzione di un corriere, che inizialmente aveva valutato positivamente. Aveva poi deciso di non assumerlo, accogliendo pressioni da un collega di un altro ufficio e agendo in modo non trasparente. Ulteriori chat acquisite avevano rivelato una strategia per gestire in modo ostruzionistico le verifiche interne sulla mancata assunzione, avviate dagli uffici delle risorse umane.
La segnalazione era partita dalla persona non assunta, che aveva denunciato a voce e per iscritto il trattamento ingiusto, presentando anche parte delle chat in cui si parlava di lui. Amazon aveva avviato un’indagine, acquisendo la chat aziendale per verificare la presenza di un comportamento non corretto. Una volta confermato, il comportamento aveva portato al licenziamento per giusta causa del dirigente.
Il licenziamento si basava sulla violazione degli obblighi di confidenzialità del processo di selezione, previsti dalla policy aziendale e garantiti dagli articoli 2104 (dovere di diligenza) e 2105 (dovere di fedeltà) del Codice Civile italiano. Il dirigente aveva impugnato il licenziamento in tribunale, ma sia in primo grado che in appello i ricorsi non erano stati accolti, e infine la Cassazione ha dato ragione ad Amazon, confermando la validità della prova ottenuta dalle chat.
I controlli difensivi e il bilanciamento della privacy
Controlli difensivi: equilibrare la sicurezza con la tutela della privacy.
La difesa del dirigente si era basata sull’illegittimità dell’acquisizione delle chat, sostenendo che potessero contenere messaggi privati. La Cassazione ha respinto questa argomentazione, qualificando la chat aziendale come «strumento di lavoro» per due motivi principali. Il primo è proprio la qualificazione della chat aziendale come strumento di lavoro, una funzione che non viene meno anche se usata per conversazioni private o fuori dall’orario di servizio. Da ciò deriva la possibilità di utilizzare i dati e le informazioni in essa contenuti «a tutti i fini», inclusi quelli disciplinari.
La seconda motivazione riguarda la legittimità dei cosiddetti “controlli difensivi”. Questi controlli, anche tecnologici, sono esercitati dal datore di lavoro con il fine di «evitare comportamenti illeciti ascrivibili, in base a concreti indizi, a singoli dipendenti». Tali controlli sono considerati legittimi solo in presenza di un «fondato sospetto» di condotte illecite da parte del lavoratore.
La Corte ha inoltre sottolineato che la policy aziendale di Amazon vietava esplicitamente l’utilizzo dei sistemi elettronici per atti illeciti e avvertiva il dipendente del possibile uso, a fini disciplinari, delle conversazioni contenute nella chat in caso di illecito. Essendo i contenuti della policy facilmente consultabili e richiamati nel contratto di assunzione, il dirigente era considerato adeguatamente informato. Questa sentenza si distingue da una precedente pronuncia della Cassazione (sentenza numero 5936 dello scorso marzo), che aveva stabilito l’inutilizzabilità dei messaggi scambiati in una chat di WhatsApp ristretta come prova per il licenziamento. Tale distinzione evidenzia la cruciale differenza che la giurisprudenza pone tra strumenti di comunicazione personale e piattaforme specificamente aziendali.
