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Referendum, la decisione della Consulta

di Antonio Caputo

Nel quadro politico, complicato dalla scomposizione e ricomposizione di alleanze che ha dato vita alla nuova fase, si inserisce la sentenza della Corte Costituzionale sui referendum elettorali per i quali erano state raccolte le firme la scorsa estate, con una forte adesione popolare, nonostante l’atteggiamento, a dir poco tiepido, dei principali partiti.
La decisione, anzitutto: la Consulta respinge entrambi i referendum, dichiarandoli costituzionalmente inammissibili.
Dei due quesiti, il primo prevedeva l’abrogazione integrale dell’attuale legge (Porcellum), ed è stato respinto dalla Corte, che ha ribadito il proprio orientamento consolidato in materia, in base al quale non si possono ammettere, in materia elettorale, richieste referendarie che lascino un vuoto normativo; in pratica, sulle leggi elettorali degli Organi Costituzionali, i referendum, per essere ammissibili, devono, in ogni caso, lasciare in piedi una normativa residua (c.d. disciplina di risulta) con cui poter tornare ad elezioni in ogni momento: gli Organi Costituzionali, cioè, non possono restare un solo minuto senza una legge elettorale che ne consenta il funzionamento. La Consulta, dunque, non poteva che respingere tale richiesta: una legge elettorale non si può mai abrogare in toto.
Più complicata la questione sul secondo referendum, che richiedeva l’abrogazione parziale del Porcellum, nella parte cioè, in cui andava ad abrogare la precedente legge (Mattarellum), con l’obiettivo di far tornare in vita proprio la precedente normativa (c.d. “reviviscenza” di una norma precedente, già abrogata). Anche su questo, però, la Consulta ha sbarrato il passo ai referendari, e non tanto sulla questione della reviviscenza in sé (controversa) ma sul fatto che tale reviviscenza avrebbe generato una normativa inapplicabile. Perché? Presto detto (e mi ricollego all’impossibilità di lasciare in materia elettorale il vuoto normativo di cui sopra): il Porcellum disegna un certo meccanismo elettorale (maggioritario di coalizione, con riparto proporzionale dei seggi all’interno della coalizione stessa, su base, nazionale alla Camera, e regionale al Senato); meccanismo completamente diverso dal precedente, basato sui collegi uninominali, non ripristinabile semplicemente con una richiesta referendaria.
La domanda referendaria infatti, solo abrogativa nell’ordinamento italiano, non poteva certo disegnare dei nuovi collegi uninominali (sarebbe stato un referendum propositivo); né si possono ripristinare i collegi del 1993; la domanda, infatti, era volta a ripristinare la legge Mattarellum. Ma quel Mattarellum che i referendari volevano ripristinare, prevedeva un meccanismo elettorale per il quale in ogni Regione (Senato) o Circoscrizione (Camera) il 75% dei seggi ad essa attribuiti, sulla base dell’ultimo censimento, sarebbe stato assegnato in collegi uninominali, col sistema maggioritario ad un turno all’inglese; non prevedeva affatto, (attenzione!) se non come conseguenza, quei collegi, disegnati nel 1993, i quali non potevano pertanto essere ripristinati sic et sempliciter tramite la reviviscenza auspicata dal Comitato referendario.

I vecchi collegi discendevano, infatti, dal riparto dei seggi tra Regioni e Circoscrizioni effettuato, nel 1993, al momento del varo della legge sulla base dell’allora ultimo censimento (quello del 1991). Inoltre, sempre il Mattarellum prevedeva che, nel disegnare i collegi (operazione che andava rinnovata dopo ogni nuovo censimento), ciascuno di essi avesse una popolazione che non si discostasse dalla media regionale o circoscrizionale in misura del 10% in più o in meno. In pratica, in una Regione o Circoscrizione di 1.200.000 abitanti con 10 collegi, ciascuno di essi avrebbe dovuto avere una popolazione che non si discostasse dalla media regionale o circoscrizionale (pari nell’esempio a 120.000 abitanti) del 10% in più o in meno; quindi ciascun collegio poteva oscillare tra un minimo di 108.000 ed un massimo di 132.000 abitanti.
Ma da allora (varo del Mattarellum) ad oggi ci sono stati: il censimento 2001, che ha ridisegnato, sia i rapporti di forze tra Regioni e Circoscrizioni in termini di seggi (alcune hanno perso seggi, altre ne hanno guadagnati), sia i rapporti di forza tra i collegi uninominali (disegnati nel 1993) all’interno delle singole Regioni e Circoscrizioni (in diversi collegi sarebbe stata cioè violata la disposizione del Mattarellum – la legge che i referendari intendevano far rivivere – che prevedeva una differenza di massimo il 10% dalla media regionale o circoscrizionale); ancora, il varo della legge sul voto degli italiani all’estero, che ha attribuito 12 deputati e 6 senatori alle circoscrizioni estere; infine, il passaggio di sette Comuni dalle Marche (provincia di Pesaro) all’Emilia Romagna (provincia di Rimini), cosa che quanto meno al Senato sarebbe stata inammissibile: quei sette Comuni, infatti, nei vecchi collegi, appartenevano al seggio n. 6 (Pesaro/Urbino) della Regione Marche; mentre, col loro passaggio alla provincia di Rimini, andrebbero inclusi (e il referendum non lo prevedeva, né poteva, non potendo essere propositivo) nel seggio n. 15 (Rimini) della Regione Emilia-Romagna, pena la violazione della disposizione costituzionale che sancisce l’elezione su base regionale dei senatori.
Ad adiuvandum, dall’autunno scorso è partito (e si concluderà tra qualche settimana) il nuovo censimento, i cui risultati si conosceranno in primavera; il che avrebbe comportato, di conseguenza, comunque una ulteriore revisione dei rapporti di forza tra Regioni e Circoscrizioni, e, all’interno di esse, un ulteriore revisione e ridisegno dei collegi uninominali. Mille e una ragione, insomma, per far saltare dei quesiti referendari giuridicamente inammissibili.
L’orientamento della Corte non mi ha sorpreso, tanto che all’atto dell’annuncio del Comitato Promotore, della missione compiuta, relativamente alla raccolta firme (ai primi di ottobre), ebbi già a scrivere, su queste colonne, che per lo meno il primo dei due referendum non aveva nessuna possibilità di essere ammesso; ma che anche il secondo, sebbene, meno macroscopicamente, qualora accolto, avrebbe determinato un vulnus non sanabile costituzionalmente, e previdi, tre mesi fa, la bocciatura di entrambi, per motivazioni non politiche, ma squisitamente giuridiche.

 

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