L’economia britannica prima del voto
Il tasso di disoccupazione del Regno Unito si attesta al 5% – decimale più, decimale meno –, raggiungendo valori ai minimi in circa un decennio. Il numero degli occupati nel trimestre (fino ad aprile) è cresciuto di oltre 50 mila unità in un anno mentre in aumento, di oltre due punti percentuali, risultano i salari. Se i salari diminuiscono e i prezzi restano stabili (o crescono), allora calerà il potere d’acquisto e, di conseguenza, anche i consumi. Riducendosi la domanda, le imprese sono così costrette a ridurre la produzione e quindi a utilizzare meno lavoratori nei cicli produttivi. Negli ultimi mesi, insomma, quello del Regno Unito si è rivelato un modello virtuoso: disoccupazione in diminuzione, salari in crescita.
Tutto questo, però, potrebbe sfumare sotto gli effetti della Brexit, il cui referendum si terrà a breve, il 23 giugno. Già diversi studi hanno mostrato quali ripercussioni economiche avrebbero un impatto negativo in caso di uscita del Regno Unito (in termini di perdita di Pil, un aumento delle tasse per i cittadini, livelli occupazionali). L’ultimo in ordine di tempo è stato il Fondo monetario internazionale, che ha avvertito: l’economia britannica, nell’ipotesi di Brexit, subirebbe un brusco stop e già dal prossimo anno sarebbe in recessione.
È un’economia in salute, quella britannica. La produzione industriale è cresciuta del 2% ad aprile e l’indice Pmi manifatturiero è tornato nel mese di maggio sopra i 50 punti base, mentre quello dei servizi è saldamente in territorio positivo. Le vendite al dettaglio hanno evidenziato, a maggio, un ulteriore incremento.
A pagare le conseguenze più dirette di una Brexit potrebbero essere proprio i consumatori a causa di una più che possibile svalutazione della sterlina che renderebbe i prodotti di importazione meno accessibili. Ma anche le aziende esportatrici, in quanto gli accordi commerciali andrebbero rinegoziati.
Tra i principali partner europei, per quanto riguarda l’export, l’Italia è meno esposta rispetto alla Germania (lo siamo di più nei confronti di Berlino o della Spagna), ma la perdita non sarebbe del tutto indifferente. Tra gli aspetti che sembrano preoccupare maggiormente gli osservatori, i posti di lavoro a rischio. Specialmente quelli dei tanti cittadini europei che risiedono in Gran Bretagna, alle prese con eventuali nuove regole sulla libera circolazione (si contano circa 600 mila italiani che lavorano oltremanica).