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Usa-Nord Corea, niente accordo. E adesso?

Il summit di Hanoi tra Donald Trump e Kim Jong-un si è chiuso con un nulla di fatto, nonostante l’ottimismo della vigilia. Per capirne di più, T-Mag ha intervistato Francesca Frassineti, ricercatrice ISPI ed esperta di questioni asiatiche

di Fabio Germani

«Abbiamo avuto un tempo molto produttivo: c’erano diverse opzioni, ma questa volta abbiamo deciso che non era una buona cosa firmare una dichiarazione congiunta al summit». Nonostante i sorrisi e gli auspici sul buon esito del summit di Hanoi, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un non sono riusciti a giungere ad un accordo sul processo di denuclearizzazione della penisola coreana. Trump ha specificato di aver «rifiutato la richiesta di togliere le sanzioni», sebbene le distanze tra le parti siano state ridotte. Ma in definitiva Kim – ha spiegato ancora il presidente Usa – «ha una certa visione che non coincide con la nostra». Un risultato positivo non era così scontato, nonostante qualcuno alla vigilia del vertice avesse previsto – un azzardo, con il senno di poi – che i due leader dichiarassero formalmente la conclusione della guerra di Corea. Il punto è che Pyongyang non sembra disposta a cedere in tempi troppo brevi senza ricevere garanzie da Washington. E gli Stati Uniti, analogamente, non intendono togliere le sanzioni prima di un impegno concreto da parte della Corea del Nord. Questa brusca interruzione dei negoziati tra Washington e Pyongyang pone ora una serie di interrogativi, anche perché – come ha ammesso Trump – «potrebbe passare molto tempo» prima di un nuovo incontro, senza dimenticare il ruolo fondamentale in questa vicenda di Cina e Corea del Sud. Per capire meglio cosa sta succedendo, T-Mag ha interpellato Francesca Frassineti, ricercatrice ISPI ed esperta di questioni asiatiche, che proprio in queste ore ha pubblicato diversi articoli sull’argomento.

Fonte: flickr/TheWhiteHouse

Il summit di Hanoi si è concluso con un “no deal”. Trump ha parlato tuttavia di distanze ridotte. Quali spiragli apre, a suo avviso, questo secondo summit tra i due leader?
Per quanto il primo vertice non avesse prodotto nulla di sostanziale, era servito a creare un rapporto diretto tra i due leader. La condotta negoziale dell’amministrazione Trump nell’ambito della questione del nucleare nordcoreano rappresenta un’anomalia rispetto alla tradizione americana in quanto il negoziato è ripartito in maniera inversa rispetto a quello che solitamente è il punto di arrivo, ovvero l’incontro tra i due leader. Nelle migliori delle attese, questo vertice avrebbe perciò dovuto dare vita ai primi passi di un processo incrementale verso almeno uno di questi obiettivi di lungo periodo: il disarmo nucleare, la normalizzazione dei rapporti bilaterali e la fine dello stato di guerra sulla penisola coreana. Ciò non è accaduto e i colloqui sono collassati di fronte all’impossibilità di trovare un compromesso sulla questione della rimozione delle sanzioni. Kim Jong-un si sarebbe reso disponibile a smantellare alcuni siti in cambio della revoca di tutte le misure che soprattutto a seguito della stretta operata a partire dal 2016 non hanno lasciato indenne alcun settore dell’economia nordcoreana.

Dopo Singapore, e adesso Hanoi, la sensazione è che si stia procedendo senza fretta verso la denuclearizzazione della penisola coreana. Stando sempre alle dichiarazioni di Trump, Kim Jong-un avrebbe illustrato delle visioni che continuano ad essere diverse dalle sue. C’era da aspettarselo?
Non era un esito difficile da prevedere se ci si attiene alle parole dei protagonisti. Non solo Kim Jong-un aveva espresso al presidente sudcoreano Moon l’intenzione di smantellare il sito di Yongbyon solo in cambio di “misure corrispondenti” da parte degli Stati Uniti, ma lo scorso gennaio Washington era stata poi messa in guardia dal regime attraverso gli organi di stampa ufficiali dalle “inevitabili conseguenze” che una strategia basata ancora sulle sanzioni e sulle pressioni avrebbe prodotto. Per il momento è ancora troppo presto per dare giudizi definitivi. Alla vigilia Pompeo aveva espresso la consapevolezza che a questo summit ne sarebbero seguiti necessariamente altri. Resta da vedere quando ciò si verificherà. Sicuramente avrebbe aiutato l’annuncio che da più parti era stato ipotizzato, dell’apertura di due uffici di collegamento, uno a Washington e l’altro a Pyongyang data l’assenza delle rispettive ambasciate, per facilitare l’operato dei negoziatori.

I tentativi di distensione tra Stati Uniti e Corea del Nord chiamano in causa, inevitabilmente, altri attori quali la Cina e la Corea del Sud. Quale ruolo avranno Pechino e Seoul, a questo punto, nel lungo e tortuoso processo di pace?
L’impossibilità statunitense di fare concessioni in termini di alleggerimento delle sanzioni complica notevolmente gli sforzi del presidente Moon Jae-in che ha investito tutto nella “risocializzazione” della Corea del Nord all’interno della comunità internazionale. Il rilancio del dialogo tra le due Coree negli ultimi dodici mesi ha viaggiato a velocità spedita, ma ora poco di più può essere fatto in assenza di progressi sul fronte della sicurezza sulla penisola coreana. Seoul aveva riposto molte aspettative nella buona riuscita di questo nuovo incontro tra Trump e Kim per far ripartire i programmi di cooperazione economica tra le due Coree attualmente impossibili da riattivare in quanto qualsiasi investimento sudcoreano al Nord, ad eccezione degli aiuti umanitari, costituirebbe una violazione delle sanzioni ONU.

E la Cina?
Negli ultimi mesi la leadership cinese era parsa più defilata rispetto al primo anno della presidenza Trump quando aveva deciso di attuare in maniera meno lasca le sanzioni Onu per poi allentare nuovamente la presa sull’economia del regime. Nonostante le apparenze, come ha riconosciuto Trump in conferenza stampa, questo attore non può non giocare un ruolo significativo dato che oltre il 90% del commercio estero di Pyongyang dipende dalla Cina. Kim Jong-un è riuscito nell’ultimo anno a ricomporre un rapporto con la leadership cinese sfilacciatosi a causa delle provocazioni, test nucleari e missilistici, che sono servite al leader nordcoreano per consolidare il suo controllo sul regime dopo l’improvviso avvicendamento ai vertici a seguito della morte del padre nel dicembre 2011. Questa nuova fase ha visto la Corea del Nord mantenere costante comunicazione con Pechino – il summit di Singapore era stato preceduto e seguito dalle visite di Kim al presidente cinese e proprio in queste ore emissari nordcoreani stanno riferendo a Pechino l’esito dei colloqui di Hanoi – che sostiene ufficialmente la via negoziale nel senso di un processo incrementale ‘step-by-step’ in quanto compatibile con il mantenimento della stabilità regionale, da sempre interesse strategico per i cinesi. Il ruolo di mediatore che Xi ha giocato resta una moneta di scambio cruciale di cui continuare a servirsi nell’ambito dei negoziati commerciali con Washington.

@fabiogermani

 

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