Tutti riformisti, e quindi tutti conservatori
Cercare di semplificare i termini dello scontro politico riconducendo alla vecchia contrapposizione tra conservatori e riformisti oggi come oggi è un po’ complicato, per il semplice fatto che il dibattito sui contenuti è fermo da tempo, soppiantato com’è dalla cronaca rosa e/o giudiziaria e dalla stretta discussione sui singoli provvedimenti che riescono ad arrivare in Parlamento.
Il tema lo ha suggerito Gianfranco Fini aprendo la prima assemblea dei circoli del suo partito, occasione in cui ha definito la sinistra “conservatrice” quanto la destra berlusconiana.
L’esigenza di Fini di sparigliare il campo e di definire la sua area come quella di una destra alternativa a quella che il Pdl rappresenta è chiara e strategicamente non obiettabile, e può anche comprendersi il pudore con il quale il leader di Fli ha evitato di incartarsi nell’uso del termine “riformista”. Del resto, l’abuso che di questa parolina magica è stato fatto avrebbe messo al riparo da eventuali accuse di prolasso ideologico, ma è sempre meglio non rischiare, specie dopo l’emorragia di futuristi che hanno abbandonato Fli per tornare alla casa del Padre: prodighi questi figlioli per alcuni, ominicchi e quaquaraqua per altri.
Il problema è che le due definizioni, di conservatore e riformista, non dicono più granché. Per entrambi i termini si è diffusa un’accezione letterale che prescinde i vecchi luoghi politici che vi facevano ideale riferimento. Conservatore è quindi semplicemente chi desidera che nulla cambi, e non chi allude a un’area politica definita. Si fa velocemente un esempio: si pensi alla legge elettorale vigente, e s’immagini quanti parlamentari abbiano desiderio di cambiarla e di andarsi a sudare una a una le preferenze che servirebbero poi per tornare in Parlamento, e subito dopo si provi a negare che in Parlamento esiste una straordinaria e trasversale maggioranza conservatrice.
Stesso discorso, sia pure con qualche forzatura, si può fare per i riformisti, la cui aerea è talmente sgranata e dai confini incerti che nessuno saprebbe bene dire non dove abbia inizio e fine, ma piuttosto se esista davvero e non sia ormai frutto di pura suggestione.
Così anche questo termine si è visto diffondere secondo il canale della peggiore percezione possibile. Al punto che chiunque oggi si professi riformista invero appaia come il peggiore (o migliore) dei conservatori.
Venuto meno il campo ideale del riformismo, cos’è rimasto da significare a questo termine se non un proposito necessariamente vincolato a una stagione temporanea e volatile? Se riformisti oggi sono semplicemente quelli che vogliono fare le riforme, che sarebbe di costoro una volta che queste fossero date per fatte? E che speranza ha il riformista professionista di continuare a galleggiare se non interpretando subdolamente il suo personaggio nel più conservativo dei modi?
Molta più fortuna letterale avrebbero dovuto avere miglioristi e progressisti, poiché certo tutto è sempre migliorabile, così come innegabile è che il progresso non si ferma mai. Eppure non è andata così.
Certi termini andrebbero cassati, così come si sciolgono quelle associazioni che hanno raggiunto il loro scopo o che hanno verificato che era impossibile farlo. Liberarcene ci aiuterebbe a trovare nomi nuovi alle cose, magari più adeguati a ciò che davvero sono. O quantomeno potrebbe essere un esercizio utile a svestire il nulla ch’è rimasto e a misurare quanto è profondo il vuoto.
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