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Cosa ha rappresentato il “chavismo”

Il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, è morto martedì 5 marzo alle 16.25 ora locale (in Italia erano le 22.55) all’età di 58 anni. Chavez era da tempo malato di cancro e si era sottoposto a quattro interventi a Cuba. Negli ultimi giorni aveva subito delle complicanze polmonari, come riferito dal delfino designato, il vicepresidente Maduro. Quest’ultimo assumerà ad interim i poteri presidenziali ed entro 30 giorni si tornerà al voto. Nell’ottobre scorso, Chavez aveva ottenuto il suo quarto mandato. I funerali del leader bolivariano si terranno venerdì. Intanto, però, il vicepresidente Maduro sembra intenzionato a percorrere l’improbabile via del complotto. La tesi è che la malattia di Chavez sia dipesa da un avvelenamento (presumibilmente da parte statunitense) come avvenuto con il leader palestinese Arafat.
Gli interrogativi sul futuro del Venezuela riguardano, ora, anche gli equilibri geopolitici dell’America Latina. È di alcune settimane fa l’intervista di Mirko Spadoni a Loris Zanatta, professore di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna, su cosa ha rappresentato il chavismo. Per l’occasione riproponiamo di seguito alcuni stralci dell’articolo, riadattato in alcune sue parti secondo la più stretta attualità.

Il passato recente e il futuro del Venezuela sono legati al nome di un uomo: Hugo Chavez. Un leader in grado di guidare una nazione per molto tempo quasi indisturbato, ma che a causa di una lunga malattia ha rischiato di mandare in tilt l’intero Paese. Nonostante tutto, il popolo venezuelano gli ha rinnovato la fiducia e, in ottobre, quando sembrava che Chavez avesse superato ogni difficoltà, lo ha rieletto presidente per la quarta volta consecutiva. Poi la sua situazione è di nuovo peggiorata e il resto è cronaca di queste ore.
“Il chavismo – spiega a T-Mag Loris Zanatta, professore di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna – definisce se stesso come il ‘socialismo del XXI secolo’, ma è più corretto definirlo come un classico populismo. Il populismo – puntualizza – deve essere inteso come un fenomeno che concepisce la società come una entità omogenea e indifferenziata, che tende perciò a esprimersi con voce univoca, quella del leader carismatico. Una società il cui insieme trascende la semplice somma delle parti e dove, fuor di metafora, i diritti degli individui sono sacrificabili al bene dell’insieme, o almeno a come il leader, incarnazione del popolo, definisce quel bene. Al chavismo calza come un guanto tale definizione”.
“Così come – prosegue il professore – gli calza l’osservazione che il populismo trasforma il suo “popolo”, senz’altro maggioritario, in tutto il “popolo”. Ciò produce due conseguenze, tipiche del chavismo. La prima rappresenta la forza del chavismo ed è il suo indubbio ruolo di integrazione dei ceti popolari cui si rivolge con le sue ‘missioni’ sociali, finanziate con gli immensi proventi della rendita petrolifera e missioni che prestano servizi di prima necessità ma anche utilizzate come canali sia di indottrinamento ideologico sia di clientelismo elettorale. La seconda conseguenza è una irrefrenabile pulsione totalitaria, che in nome dell’omogeneità del popolo porta il chavismo come ogni altro populismo a monopolizzare il potere, a sopprimere la divisione tra i poteri dello Stato, a controllare e usare come megafono della sua ideologia i mezzi di informazione, a utilizzare come proprio patrimonio la ricchezza pubblica: tutte cose che il chavismo fa abbondantemente, cancellando di anno in anno le distinzioni tra Stato, società, partito e ‘popolo’ chavista, al cospetto del quale l’opposizione, pur coprendo oltre il 40% del paese, è vista come ‘nemica’ e ‘traditrice’ del Paese. Unico freno allo strapotere chavista è il fatto che in luogo di giungere con la forza al potere come Chávez tentò nel 1992, vi è giunto per via elettorale grazie al tracollo del vecchio sistema politico. Ciò gli ha conferito più legittimità ma lo ha anche costretto a ‘ibridarsi’ con la democrazia rappresentativa, o almeno a usarne gli strumenti, benché la disprezzi e dichiari di continuo di intendere ‘superarla’”.
“Il chavismo – spiega allora Zanatta – si inserisce nel profondo solco dei populismi latinoamericani, il peronismo in primis, come testimonia il fatto che assai prima di attorniarsi di raffinati intellettuali specialisti in studi postcoloniali, Chávez amava rivendicare la concezione organicista dell’ordine sociale di un Tommaso d’Aquino o citare a menadito la teoria dell’uomo forte capace di plasmare la storia di Thomas Carlyle, per non dire di quanto il suo discorso e immaginario sociali sono impregnati di cosmologia cristiana. Il ruolo preponderante dei militari nel suo regime, dove occupano le posizioni strategiche, la dice lunga su tale genealogia”.

Chavez, come leader, si è dimostrato all’altezza della situazione. La sua azione di governo, supportata da un forte consenso popolare, ha avuto molti obiettivi. Alcuni dei quali decisamente ambiziosi, come l’estromissione degli interessi economici degli Stati Uniti dal suolo venezuelano. O almeno questo è quanto ha sempre rivendicato, con orgoglio, il governo di Caracas. Perché, secondo Zanatta, “ad essere cambiato da oltre un decennio in qua e a prescindere dall’avvento al potere di Chávez è il peso che gli Stati Uniti sono in grado di esercitare nella regione. Il fatto che quasi tutta l’America Latina sia oggi retta da regimi democratici e che gli effetti della globalizzazione l’abbiamo in generale premiata dandole nuovi partner e sospingendone la robusta crescita degli ultimi anni, riduce la capacità degli Stati Uniti di influenzarne gli orientamenti politici ed economici”.
“Mai come oggi – aggiunge a tale proposito il professore – si può dire sia che l’America Latina gode di ampia autonomia da Washington sia che al suo interno vi sono grandi differenze tra aree con livelli di sviluppo, interessi nazionali e reti di rapporti internazionali assai diversi tra loro. Detto ciò, va da sé che il Venezuela di Chávez, tra i primi fornitori di petrolio al mondo degli Stati Uniti ma deciso a fare dell’antiamericanismo una bandiera intorno alla quale costruire consenso sia all’interno del paese sia nel mondo, abbia creato grattacapi a Washington. Specie da quando Chávez ha mostrato la chiara di intenzione di usare il petrolio come arma politica per crearsi clientele politiche in Sudamerica (Bolivia, Ecuador e in parte perfino Argentina), in America centrale (Nicaragua) e nei Caraibi e per estendere il suo raggio d’azione alla schiera di Stati che nel mondo sfidano gli Stati Uniti, coi quali il Venezuela coltiva oggi rapporti strettissimi: Russia e Iran in primis, ma anche Bielorussia e Siria, così come un tempo la Libia. La costante e spesso violenta polemica venezuelana con gli Stati Uniti, non si può però dire che ne abbia causato scomposte reazioni, né che abbia intaccato i fattori strutturali che rendono per entrambi i paesi conveniente non trasferire il conflitto dall’ideologia alle relazioni economiche. Per un verso, infatti, gli Stati Uniti sono troppo coscienti del grande capitale di popolarità che porterebbe al chavismo una loro veemente reazione alle sue provocazioni, per cui tengono da sempre un basso profilo e pur ribadendo il desiderio di vedere un Venezuela più democratico di quanto non sia, non perdono occasione per mostrarsi disposti a migliori rapporti, al punto che l’opposizione venezuelana se ne è più volte lamentata. Per un altro verso, a proposito dei rapporti economici tra Venezuela e Stati Uniti, non si può dire che gli sforzi chavisti di differenziare i propri partner e dipendere meno dal mercato statunitense abbiano finora sortito gli effetti desiderati, dato che la cattiva qualità del petrolio venezuelano ne rende complessa e costosa la raffinazione, il che disincentiva partner lontani come la Cina. Come se ciò non bastasse, facendo uso politico del petrolio il governo di Chávez ne ha aumentato la quantità che cede a clienti politici a condizioni agevolate mentre nei fatti lo regala ai consumatori interni: unita agli scarsi investimenti e alla discutibile gestione della grande impresa petrolifera di stato, la PDVSA, entrambi fattori che hanno causato la riduzione di un terzo della produzione petrolifera venezuelana nell’ultimo decennio, tale circostanza fa sì che il Venezuela esporti meno di un tempo e sia meno importante del passato per gli Stati Uniti. I quali, tra l’altro, hanno reagito alla sfida di Chávez investendo di più sulla propria autosufficienza energetica”.

Chavez, come ogni uomo di potere del suo spessore, non è stata una persona qualunque: da lui sono dipesi delicati equilibri politici e le conseguenze della sua scomparsa, sottolinea Zanatta, “sono imprevedibili”.
“Poiché se da un lato il suo regime ha avuto nel leader carismatico il principale collante, dall’altro non v’è dubbio che il chavismo trascenda la figura di Chávez e abbia piantato profonde radici tra i ceti popolari. Ciò non toglie che il chavismo sia attraversato da profonde faglie che la scomparsa del collante potrebbe approfondire: quelle ideologiche tra i socialisti in stile cubano come il delfino in pectore di Chávez, il vicepresidente Nicolas Maduro, e i cosiddetti boliborghesi, come il presidente dell’Assemblea Nazionale Diosdado Cabello, saliti sul carro del regime mossi più dall’opportunismo che dagli ideali. Ma divisioni covano anche tra la potente casta militare e i dirigenti civili, tra il partito centrale e il partito periferico e così via. Problemi seri potrebbero però venire alla tenuta del regime chavista e alla sua proiezione esterna dalla situazione economica, in particolare se il corso dei prezzi petroliferi dovesse flettere. E’ noto, infatti, che nonostante l’astronomica cifra di 800 miliardi di dollari entrati nella casse venezuelane da quando Chávez è al potere grazie ai prezzi stellari del petrolio, la gestione populista dell’economia ha portato a generare un forte deficit, a causare un’elevata inflazione che erode i salari, a fare salire alle stelle il dollaro sul mercato parallelo. Tutti fenomeni accompagnati da croniche mancanze di generi di prima necessità dovute alle rigide politiche di controllo cambiario e ai paradossali black-out elettrici, causati dagli scarsi investimenti in infrastruttura. In tale situazione, aggravata dalla gigantesca crescita della spesa pubblica attuata dal governo durante le elezioni dell’ottobre scorso, e con le scadenze dei debiti sempre alle porte, è assai probabile che presto le autorità dovranno ricorrere a una sostanziosa svalutazione, i cui costi sociali saranno difficili da far digerire alla popolazione in assenza di Chávez. A quel punto è probabile che nel seno del regime crescano le pressioni per tagliare le enormi perdite che il Venezuela si accolla ‘regalando’ petrolio col fine di reclutare alleati all’estero. Perché, saranno sempre in più a chiedersi, non impiegare quelle risorse sul fronte economico interno, che tanto ne necessita?”.

 

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