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Il Giappone e la caccia alle balene

di Mirko Spadoni

balena mortaLa Corte internazionale dell’Aja non crede al Giappone. La caccia alle balene nei mari dell’oceano Antartico non viene condotta – come invece vorrebbe la versione ufficiale fornita da Tokyo – per “mera ricerca scientifica”.
“Il Giappone – ha detto il giudice Peter Tomka, nel corso dell’udienza al Palazzo della Pace all’Aja – deve revocare i permessi, le autorizzazioni o le licenze già rilasciate nell’ambito del Jarpa II (il programma di ricerca scientifica nipponico, ndr) e di non concedere eventuali nuove licenze nell’ambito dello stesso programma”.
I giudici hanno così risolto il contenzioso sollevato dall’Australia nel 2010, che aveva citato in giudizio Tokyo con l’accusa di aggirare il divieto di cacciare le balene imposto nel 1986 dall’International Whaling Commission, nella quale sono rappresentati 88 Paesi tra cui anche l’Italia, che vi aderì il 6 febbraio del 1998.
Una moratoria che tuttavia alcuni hanno sempre evitato di rispettare, sfruttando una ‘scappatoia’ concessa a tutti quei Paesi – come il Giappone, l’Islanda e la Norvegia – che di interrompere la caccia alle balene non ne hanno voluto sapere: la convenzione prevede e regola infatti la possibilità di cacciare i cetacei “per scopi scientifici”. E così dal 1988 il Giappone, secondo i dati di Canberra, ne avrebbe uccisi oltre diecimila. “Sulla base di un cosiddetto programma scientifico – riferiva invece El Paìs qualche tempo fa – i giapponesi cacciano ogni anno circa 850 balenottere (Tokyo sostiene sul fatto che in mare ce ne siano almeno 100.000 esemplari) ed altre 100 balene di varie specie”.
Ma al di là delle polemiche, il Giappone deve fronteggiare anche dei costi: “Il programma di caccia alle balene – sostiene Greenpeace – costa ai contribuenti 1,2 miliardi di Yen ogni anno (circa 10 milioni di euro) solo di tasse dirette”. Spese non indifferenti se si tiene anche conto che la carne di balena viene consumata da sempre meno giapponesi: nel 2006, un rapporto di Greenpeace sosteneva che il 95% non ne aveva “mai mangiato” o lo aveva fatto “raramente”. Così nel 2012, ad esempio e secondo uno studio dell’Istituto giapponese di ricerca sui cetacei, circa il 75% del totale (ovvero circa 900 tonnellate su 1.200) rimase invenduto. Una dinamica del resto inevitabile visto e considerato che le abitudini alimentari nel Sol Levante sono cambiate molto negli ultimi anni: “Le giovani generazioni – scriveva qualche settimana fa su pagina99 Benedetta Fallucchi, corrispondente romana del quotidiano giapponese Yomiuri Shimbun – privilegiano le cucine occidentali di alto livello o le catene di fast-food, il consumo annuale di riso è crollato del 17% negli ultimi 15 anni, mentre la domanda di carne ha sopravanzato quella di pesce già dal 2006”.

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