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Il welfare nell’Europa che invecchia

di Carlo Buttaroni

anziani_pensioniNel 2050 la popolazione del mondo supererà i 9 miliardi, con un incremento di 6,6 miliardi rispetto a cento anni prima, mentre verso la fine del secolo dovrebbe varcare la soglia degli 11 miliardi di individui. Le stime per i prossimi decenni evidenziano anche un’altra dinamica, altrettanto imponente: il progressivo invecchiamento della popolazione. A oggi, sono 810 milioni gli anziani in tutto il mondo, ma si prevede che il numero raggiunga il miliardo in meno di dieci anni e raddoppi entro il 2050, toccando i 2 miliardi. Ben 64 paesi registreranno, nel 2050, oltre il 30% di anziani, facendo dell’invecchiamento il fenomeno più significativo del 21esimo secolo che trae le sue origini in due dinamiche confluenti: la crescita dell’aspettativa di vita e la diminuzione dei tassi di fertilità. La conseguenza inevitabile di questo processo demografico è il capovolgimento della piramide delle età, prima caratterizzata da un’ampia base costituita da giovani, che si sta assottigliando velocemente a vantaggio di un vertice anziano sempre più in espansione.
Nel 2045, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione anziana (cioè le persone con più di sessant’anni) e quella giovane (con meno di quindici) rappresenteranno la stessa quota della popolazione mondiale.
In Europa, il passaggio di staffetta tra giovani e anziani è avvenuto già all’inizio degli anni Novanta e oggi stiamo assistendo al progressivo pensionamento della generazione nata negli anni del “boom demografico”, che garantì al sistema produttivo le risorse umane necessarie a sostenere la crescita economica e ai sistemi di welfare un ampio bacino di approvvigionamento finanziario. Le nuove generazioni europee non sono sufficienti a sostituire quelle che escono dal mercato del lavoro per anzianità e il sistema presenta una crescente sproporzione tra popolazione attiva e non attiva. Oltretutto, mentre da un lato si registra un notevole prolungamento del periodo di permanenza degli anziani a carico del sistema di protezione sociale, dall’altro cresce il numero di anni che precedono l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.
Tutto questo ha portato a reso il sistema di welfare europeo sempre meno sostenibile dal punto economico nonché meno stabile nel momento in cui la base fiscale si riduce e, contestualmente, aumentano i costi determinati dall’aumento della popolazione anziana a carico del sistema stesso. Le entrate e la spesa pubblica, infatti, risentono inevitabilmente delle caratteristiche anagrafiche della popolazione. Le prime, infatti, derivano principalmente dalla tassazione dei redditi di lavoro (e, quindi, il periodo di massima contribuzione degli individui coincide con l’età lavorativa adulta), mentre le punte massime della spesa pubblica si concentrano nelle due fasce estreme: la prima tra 0 e 20 anni e la seconda tra i 60 e gli 80 anni, con il secondo picco che supera abbondantemente il primo ed è in veloce ascesa.
Se da un lato, quindi, le entrate sono destinate a ridursi in funzione del minor peso delle generazioni in grado di produrre reddito, dall’altro, la spesa pubblica per la previdenza e l’assistenza agli anziani potrà solo crescere in relazione all’aumento dei beneficiari del sistema pensionistico e socioassistenziale.
Questo scenario non è, però, ineluttabile e può essere cambiato attraverso scelte di politica economica che devono essere assunte nel giro di poco tempo, anche in risposta alla crisi economica e ai danni prodotti dalle politiche del rigore.
La priorità assoluta, in questo momento, per rispondere agli squilibri di finanza pubblica derivanti dallo spostamento verso l’alto del baricentro demografico è, innanzitutto, quella di mettere più persone al lavoro. In quest’ambito, i margini di miglioramento sono molto ampi, poiché meno dei due terzi della popolazione europea in età lavorativa è effettivamente occupata. Un altro aspetto fondamentale è l’aumento della produttività del lavoro che, nel prossimo decennio, rappresenterà il principale fattore di crescita economica in tutto il mondo.
La produttività del lavoro dipende prevalentemente dal progresso tecnologico il quale, a sua volta, dipende sempre più dalle università, dagli investimenti in ricerca e sviluppo e dalla rapida adozione di nuove tecnologie da parte delle imprese. Per far crescere la produttività del lavoro, quindi, è necessario far leva sui livelli di competenza dei lavoratori e, in questo senso, un ruolo fondamentale deve essere riservato agli investimenti pubblici in istruzione.
Naturalmente, l’obiettivo deve anche essere la crescita del tasso di natalità e questo aspetto è legato a doppio filo col tema dell’occupazione. Ricerche estese all’area OCSE, mostrano, infatti, una forte relazione fra alto tasso di occupazione femminile e trasferimenti di denaro alle famiglie, disponibilità di lavori part-time e cura per i bambini. Dove tutte queste misure sono presenti, il tasso di natalità è cresciuto. Ad esempio, in Francia e nella maggior parte dei Paesi nordeuropei negli anni passati sono state intraprese politiche di sostegno economico alle famiglie e di potenziamento delle infrastrutture sociali che hanno prodotto un aumento della natalità.
Naturalmente, non si è trattato di scelte “a costo zero”: questi Paesi destinano, infatti, fra il 3 e il 4% del PIL all’investimento sulle generazioni future, considerandola evidentemente una spesa pubblica “produttiva”, in quanto capace di contenere i maggiori costi in un futuro non troppo lontano.
In sintesi, per rispondere all’invecchiamento della popolazione e al conseguente deterioramento della finanza pubblica, occorre agire prioritariamente in tre direzioni: aumentare il numero di occupati, far crescere la produttività del lavoro, sostenere economicamente le famiglie per aumentare il tasso di natalità.
Finora, però, le scelte rigoriste di politica economica sono andate in direzione opposta: vasti gruppi di popolazione in età lavorativa sperimentano condizioni di disoccupazione o sottoccupazione, i redditi reali delle famiglie sono diminuiti e i tagli alla spesa pubblica hanno prodotto una profonda rimodulazione degli investimenti in istruzione e in ricerca.
Queste scelte, non solo hanno avuto effetti negativi nell’immediato, ritardando la ripresa, ma rischiano di avere conseguenze ancora più gravi nel futuro, incrociandosi con il progressivo invecchiamento della popolazione.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 12 maggio 2014. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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