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Così la guerra in Ucraina rallenta la crescita economica

Caro-energia e rincari delle materie prime, ma anche difficoltà negli approvvigionamenti e peggiorate condizioni per la circolazione delle merci sono gli elementi di maggior rischio

di Redazione

Le ripercussioni economiche della guerra peseranno di più, neanche a dirlo, in Ucraina. Secondo il Fondo monetario internazionale, infatti, l’invasione della Russia ha alterato in modo significativo l’outlook dell’Ucraina, per la quale ora sono attesi una profonda recessione e ampi costi di ricostruzione. Ma la stessa Russia (e la Bielorussia) saranno messe a durissima prova dalle sanzioni imposte. E le prime conseguenze si registrano anche altrove, Italia compresa. Dove la crescita potrebbe rallentare, dicono Censis-Confcooperative, a causa della «fiammata dell’energia, prima, e la crisi provocata dalla guerra, poi».

Intanto c’è subito da chiarire che un primo rallentamento si è osservato, a livello internazionale, già prima della guerra tra Russia e Ucraina. Il Prodotto interno lordo dell’area G20 è aumentato dell’1,4% nell’ultimo periodo dello scorso anno, registrando un rallentamento rispetto al +1,9% osservato nel terzo trimestre. L’Ocse stima nel 2021 la crescita complessiva al 6,1%, dopo il calo del 3,2% del 2020 a causa della pandemia di coronavirus. Tra i paesi del G20, è la Turchia a mettere a segno la crescita più elevata (11%), a seguire India (8,3%) e Cina (8,1%), mentre il Giappone evidenzia quella più bassa (1,6%).

Secondo lo studio di Censis-Confcooperative La Guerra dell’energia, elaborato su analisi del FMI, sono a rischio 184 mila imprese con almeno tre addetti. Maggiore risulta essere l’incidenza del rischio tra le imprese dei servizi (20,5%) e tra le piccole (21,3% nella classe 3-9 addetti). In base alle previsioni sul primo semestre 2022, circa 184 mila imprese sarebbero esposte a un rischio tale da pregiudicare la propria attività operativa. Occupano poco meno di 1,4 milioni di addetti (il 10,5% sul totale) e rappresentano il 10,9% del valore aggiunto del sistema produttivo (Istat).

Va poi considerato che, stando all’analisi del Censis, il 29,8% delle imprese italiane – oltre 285 mila, di cui 221 mila del terziario – non è in grado di recuperare i livelli di capacità produttiva precedenti la pandemia. Il 61,7% è già tornato a un regime produttivo in linea con i livelli pre pandemia (il 65,1% nell’Industria, il 60,2% nei servizi), mentre l’8,5% (circa 82 mila imprese) ha già superato la fase critica con un incremento della capacità produttiva rispetto a due anni fa, anche se nel terziario la quota scende al 6,7% e nell’industria supera il 12%, così come minore è l’incidenza tra le piccole imprese (il 6,6% nella classe 3-9 addetti) e maggiore tra le più grandi (il 23,9% nella classe con almeno 250 addetti).

Lo scenario attuale, insomma, rischia di inasprire ancora di più la situazione. Il Fmi, nel periodo prebellico, aveva stimato una contrazione del Pil pari all’1,5% dovuta al caro-energia a cui vanno aggiunti gli effetti della guerra che rischiano di costarci – secondo, appunto, l’analisi Censis-Confcooperative – almeno un altro 1,5% di Pil tra rincari delle materie prime, difficoltà negli approvvigionamenti, mancato export verso la Russia, chiusura dei flussi turistici e peggiorate condizioni per la circolazione delle merci.

 

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